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Economia: La gestione dei crediti verso i clienti: dai tentativi di recupero alla strada della svalutazione



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Economia » 03/07/2004

La gestione dei crediti verso i clienti: dai tentativi di recupero alla strada della svalutazione

Premessa
Da sempre i risultati economici di un’attività d’impresa devono fare i conti con il problema dell’effettivo incasso dei crediti maturati verso i propri clienti per vendite e servizi erogati nei loro confronti: è molto frequente che i pagamenti vengano rateizzati, dilazionati, rimandati nel tempo per accogliere le esigenze della controparte pur di concludere l’affare, ottenere il lavoro o semplicemente mantenere i rapporti commerciali con una clientela sempre più spesso in crisi di liquidità.
Queste pur condivisibili scelte però incidono purtroppo negativamente sulla gestione finanziaria dell’attività; per tutti infatti una carenza di flussi cash in entrata può generare scompensi, alterare equilibri o addirittura condizionare politiche d’acquisto e di investimento.
D’altro canto la via del recupero forzato delle somme spettanti diviene, per una serie di ragioni, difficilmente percorribile: innanzitutto procedere per via legali verso un soggetto moroso o inadempiente significa perderlo come cliente e poi, molto spesso, le spese dell’avvocato che deve istituire la pratica, cercare di recuperare il credito, redigere e presentare il decreto ingiuntivo, eccedono il valore del credito che si vuole recuperare e quindi l’operazione diviene anti-economica, questo nonostante la norma pro-creditore sugli interessi moratori dovuti in caso di ritardato pagamento di cui si è detto in un precedente numero della rivista.
Certamente allora l’impresa potrà trovare più conveniente (o meglio opportuno) rinunciare a qualche credito giudicandolo il male minore; in queste ipotesi bisogna fare i conti però con le norme di legge perché non è sempre facile e scontato che si possa annullare i crediti in bilancio senza ripercussioni, prime fra tutte di carattere fiscale. Oltre il danno ci sarebbe la beffa…

Trattamento dei crediti secondo le norme del codice civile
Il codice civile ci dice che i crediti devono essere iscritti in bilancio secondo il presumibile valore di realizzo. Questa espressione, come chiarito dai principi contabili, significa che la valorizzazione di un credito deve essere a priori espressa già al netto delle perdite per inesigibilità o per altre cause che ne pregiudichino l’incasso in maniera certa e definitiva.
In particolare, sempre secondo le indicazioni fornite dai principi contabili, dette rettifiche del valore nominale dei crediti non dovrebbero incidere a livello economico sull’esercizio in cui si manifesta la perdita (cioè il mancato incasso) ma, nel rispetto dei principi della prudenza e della competenza che devono ispirare la redazione del bilancio, negli esercizi in cui detta perdita risulta ragionevolmente ipotizzabile.
La tecnica contabile da adottare in questi casi è quella di accantonare in un apposito “fondo svalutazione crediti” le somme che si considerano difficilmente incassabili, esclusi i casi evidentemente in cui una perdita su crediti non risulti assolutamente imprevedibile o derivi da una scelta assunta dal creditore in un determinato momento.
In tali circostanze infatti non si può far altro che annullare direttamente in contabilità la posizione creditoria verso il debitore che ad esempio si è estinto o è fallito per la somma corrispondente al credito vantato nei suoi confronti.
In questo modo quindi avremo in contabilità:
- un totale crediti pari al valore in Euro delle somme che effettivamente andranno all’incasso (al netto quindi delle perdite certe e di quelle presunte che sono state prudenzialmente accantonate – contabilmente – in un apposito fondo rischi)
- un fondo rischi dove sono espressi in Euro i crediti chiamiamoli in sofferenza che non si considerano più parte attiva della liquidità del creditore.
Le scelte adottate in ossequio alla normativa civilistica di bilancio devono poi essere riesaminate in sede di determinazione del reddito d’impresa (quello su cui pagare le tasse per intenderci), per il calcolo delle imposte in quanto le regole previste dalla normativa fiscale impongono specifiche condizioni per il riconoscimento delle svalutazioni dei crediti civilisticamente operate.

Riconoscimento fiscale delle perdite su crediti
La disciplina sulla deducibilità delle perdite su crediti nella determinazione del reddito d’impresa è contenuta in una specifica norma del Testo Unico delle Imposte sui Redditi secondo cui “le perdite su crediti sono deducibili se risultano da elementi certi e precisi e, in ogni caso, se il debitore sia assoggettato a procedura concorsuale” esempio principe, il fallimento.
L’interpretazione della norma non presenta alcun problema in relazione ad alcuni aspetti specifici che sono ormai ben chiari a tutti.
In particolare, il riferimento al formale stato di insolvenza del debitore – cioè la sua incapacità latente di far fronte ai propri impegni di pagamento – è stato definitivamente chiarito che il creditore fallito è impossibilitato a pagare e quindi il credito nei suoi confronti è stralciabile.

Ciò che, invece, desta ancora oggi molte perplessità è il significato della espressione “elementi certi e precisi” e chiunque si sia cimentato nella sua interpretazione lo ha fatto con chiavi di lettura diverse.
Innanzitutto chiariamo che la norma si riferisce sia al caso in cui la svalutazione derivi da una scelta del creditore – che rinuncia ad esempio all’incasso per una delle ragioni indicate in premessa – sia a quello in cui quest’ultimo subisce la perdita per colpa del debitore.
Mi preme poi spiegare che la possibilità di dedurre fiscalmente le perdite su crediti (quindi non pagarci su le tasse) che abbiamo detto essere possibile solo se oggettivamente ed inequivocabilmente non vi sarà recupero delle somme dovute, è stata imposta dal legislatore fiscale per evitare un’eccessiva discrezionalità dei contribuenti nello svalutare i crediti beneficiando di risparmi di imposta e tende ad evitare politiche di bilancio che finirebbero con alterare i risultati economici e lo stesso calcolo delle tasse.

Tanto premesso, l’interpretazione della norma che ritengo essere più largamente condivisa sia quella che, in linea generale, per poter definire una perdita certa e quindi dedurre fiscalmente il valore del credito giudicato a questo punto perso, occorre fornire una prova documentale di aver tentato con ogni mezzo anche legale di ottenere l’incasso del credito (ad esempio le lettere dell’avvocato).
E’ chiaro infatti che la rinuncia ad un credito non possa non essere riconosciuta valida ai fini fiscali se risultasse economicamente sconveniente insistere sulla strada del suo recupero; appoggiamo quindi la tesi che la svalutazione di un credito è fiscalmente deducibile nel momento in cui i costi per il recupero dello stesso superano il suo valore di realizzo. In questo contesto poco cambia se la decisione di svalutare un credito sia originata da una scelta del creditore o se sia stato l’avvocato a darci parere negativo in merito al suo incasso.
Ecco allora che spesso, purtroppo è la prassi, i crediti di modico valore un po’ difficoltosi da incassare finiscono per essere stralciati senza che la cosa abbia effetti fiscali indesiderati, proprio perché lo sforzo economico per un loro eventuale e faticoso recupero, eccederebbe certamente la cifra che si riuscirebbe a riscuotere, al termine di lunghe trafile burocratiche.

La svalutazione ordinaria dei crediti
Altro discorso merita la svalutazione dei crediti che abbiamo detto essere accantonati per prudenza in un apposito fondo di svalutazione.
In questo caso le norme fiscali impongono che l’accantonamento in oggetto possa essere dedotto anche fiscalmente solo entro specifici limiti quantitativi: in particolare è deducibile l’accantonamento per un importo massimo pari allo 0,5% del totale dei crediti in bilancio e finchè l’ammontare totale del fondo non abbia raggiunto il 5% dello stesso totale crediti.
Un esempio molto banale per rendere l’idea: se ho crediti verso clienti per 1.000 Euro posso accantonare fiscalmente a fine anno solo 5 Euro (= 0,5% di 1.000); ma se il fondo già accantonato negli anni precedenti è pari a 47 Euro ad esempio, se accantonassi 5 Euro supererei la soglia del 5% (che è 50 Euro) e quindi fiscalmente posso accantonare al massimo 3 euro.
Ovviamente ogni volta che poi si manifesta una perdita effettiva di crediti per una delle circostanze viste più sopra, è il fondo svalutazione a coprire la perdita e quindi il suo valore si riduce aumentando il tetto massimo di accantonamento per l’anno successivo.

Cosa accade nella prassi
Le aziende poi che devono fare i conti con le nome fiscali e certamente non vogliono complicare la propria contabilità con accantonamenti a fondo svalutazione crediti superiori a quanto fiscalmente concesso, finiscono con l’accantonare ogni anno il famoso 0,5% nel limite del 5% anche se – come accade molto spesso – i crediti in sofferenza che per prudenza andrebbero accantonati, sarebbero molti ma molti di più.

Gianluca Alparone


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