Approfondimenti » 23/02/2013
Revolution. Di Guido Giampietro
Non avendo trovato posto alla prima dello spettacolo avevo dovuto ripiegare sulla replica. Ma non fu questo l’unico inconveniente della serata. Anche fuori il tempo non prometteva nulla di buono, con un cielo nel quale veloci correvano sfilacci di nuvole biancastre. Il colpo di grazia lo ricevetti quando, oramai nel foyer del Teatro Verdi, anziché piegare a sinistra verso la platea fummo indirizzati a destra, verso il palcoscenico…
Solo un momento, poi allo sconcerto subentrò lo stupore. Mi resi conto di trovarmi nel Sancta Sanctorum del teatro o ˗ più prosaicamente ˗ nel suo ventre che, come quello d’una donna pudica, si mostra in tutta la sua intimità solamente a chi si vuole bene. Ad artisti e addetti ai lavori, per l’appunto, non certo a un pubblico quasi sempre più curioso che intenditore. Con entusiasmo scoprivo le balconate, le passerelle sospese, i sistemi di tiri manuali e meccanici. E, ancora, i camerini degli artisti, i fondali, le quinte, le luci, il sipario tagliafuoco …
Insomma, grazie a questo accorgimento scenico, voluto dalla regia di Sara Bevilacqua (insieme a un arredo minimo ma funzionale), ero in condizione di vivere, in simbiosi con gli artisti, le emozioni di questa pièce scritta da Emiliano Poddi e portata in scena dai “Meridiani Perduti”, l’affermata compagnia teatrale di giovani brindisini. In pratica, sul medesimo piancito e senza soluzione di continuità, c’erano Sara ˗ ora nel ruolo di attrice ˗, il pianista e il cantante. E gli spettatori che, come il coro dell’antico teatro greco, partecipavano in diretta agli eventi fasti e nefasti della rappresentazione.
Questo antefatto ˗ lo confesso con un po’ di vergogna ˗ serve a prendere tempo. In realtà non so come iniziare. Premesso che Revolution è uno spettacolo delizioso, da dove parto? Dall’autore cui va il merito d’aver scritto una storia in grado di far vibrare le corde della sensibilità dello spettatore, giovane o maturo che sia? Una storia in cui ˗ va subito detto ˗ la levità del linguaggio fa da contraltare al peso dei temi esistenziali e la brindisinità si sposa felicemente con l’internazionalità delle melodie dei Beatles. Oppure parlo della toccante interpretazione dell’attrice, quasi una “lectio magistralis” sul teatro? Insomma, Emiliano o Sara? È il dilemma che da sempre attanaglia il critico. Come dire: è stato più bravo Puccini a comporla o Maria Callas a interpretarla, la Tosca?
Opto per Sara e non solo per un fatto di cavalleria, ma perché con le sue lacrime ˗ autentiche e fastidiosamente contagiose! ˗ ha suggellato un’interpretazione superba, da attrice provetta e oramai matura per calcare ben altri palcoscenici. Io stesso, a dirla con Erri De Luca, “mi passai le dita in cima al naso per acchiappare due lacrime ladre che stavano scappando”. Per la cronaca non ricordo d’essere riuscito a fermarle quelle due lacrime e non so nemmeno se mi andava di farlo. Tornando a Sara, come si potrebbe sintetizzare la sua interpretazione? Eterea! Con una misurata gestualità, le efficaci espressioni facciali e le dolci tonalità della voce (ad eccezione di quel roco “manco morta!”…) finisce per diventare una delle tante bolle di sapone che, quasi a materializzare un sogno, aleggiano sulla scena con l’iridescenza dei loro arcobaleni.
“Il mondo ˗ come afferma Coelho ˗ è nelle mani di coloro che hanno il coraggio di sognare e di correre il rischio di vivere i propri sogni” e la ragazza ˗ brindisina doc ˗ che Sara impersona, tra una fuitina dello zio Tonino e le lezioni sullo “spazio universo” dello zio Enrico, è una grande sognatrice. Tanto grande da immaginare le smilze silhouette dei Beatles al posto dei quattro santi sulla facciata della Cattedrale!
Però c’è da dire che in quegli anni ˗ i fatidici anni Sessanta ˗ bastava poco per sognare, in ciò agevolati anche dalle musiche dei Beatles. Musiche che l’estro d’un valente Daniele Bove al pianoforte e la calda voce d’un concentratissimo Daniele Guarini hanno saputo rendere al meglio catapultandoci, come per magia, a Liverpool ˗ al 10 di Mathew Street ˗, direttamente dentro il mitico Cavern Club. Anche in questo sta la bravura di Emiliano Poddi. Nell’aver inventato un linguaggio nuovo fatto di parole comprensibili a chiunque. Si passa, infatti, da quelle italiane, alle brindisine, alle inglesi di Lady Madonna o Help o Ticket to ride. Così che Revolution potrebbe essere rappresentata indifferentemente al Royal National Theatre di Londra o all’Eliseo di Roma.
Gli anni Sessanta, quelli che ˗ nonostante i lutti e il Vietnam ˗ non riescono mai a essere veramente tristi perché c’è sempre un ricordo o la strofa d’una canzone come Hey Jude a farceli ricordare come anni speciali. Questo, almeno, vale per chi ha avuto la fortuna di viverli. Anche se Emiliano li ha descritti con una ricchezza di particolari da renderli belli a tutti. Ma per le “vasche” su corso Garibaldi nemmeno l’autore ha potuto fare niente. Quelle, se uno non le ha macinate personalmente, non si potranno mai comprendere. Come dire che, una volta tanto, l’età paga…
In una Brindisi che, stiracchiandosi scompostamente, s’andava svegliando da un lungo letargo e s’apprestava a vivere la sua Revolution industriale ˗ una rivoluzione non di matrice popolare, ma imposta dall’alto ˗ la nostra ragazza, tra una chiacchierata e l’altra con la Madonna della Cattedrale, i battibecchi con nonna Tetta la giapponese e le serate di liscio da nunna Bricida, affacciata alla finestra della sua camera fantastica sul primo viaggio orbitale intorno alla Terra di Jurij Gagarin e, in un crescendo di emozioni, su quello di John Glenn e dell’Apollo di Armstrong, Aldrin e Collins.
Ma è Valentina Tereškova il modello da imitare, il vero, grande sogno della ragazza. E mentre lei lo insegue sbirciando la luna, Brindisi s’illude di diventare una città industriale rinnegando il proprio passato e consentendo al Petrolchimico d’appropriarsi d’una superficie estesa quattro volte la città. Spariscono così le colture dei pregiati vitigni e le distese giallo-verdi di meloni e angurie. Per non parlare dell’offesa fatta al mare.
Questo, signori, è il prezzo da pagare alla rivoluzione! E il conto finale, quello che viene presentato l’8 dicembre 1977 con la morte scenica di Roberto e lo scoppio ˗ questo sì, vero ˗ del Reparto P2T, è ancora più alto. Come ha detto Natalia Ginzburg: “Non si amano solo le memorie felici. A un certo punto della vita, ci si accorge che si amano le memorie”.
Ed è proprio questa la via che Emiliano Poddi, con Revolution, storia d’amore e di dolore, ha seguito e ci suggerisce di percorrere. In maniera che la memoria del passato sia d’ammaestramento per il futuro e consenta anche noi, così come era capitato alla ragazza sognatrice, di trovare il nostro, personale, Mare della Tranquillità.
Guido Giampietro
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