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Arte: "Il colore negli occhi" di Elisa Zongoli



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Arte » 25/08/2005

"Il colore negli occhi" di Elisa Zongoli

IL COLORE NEGLI OCCHI
Fotografie del viaggio in India di ELISA ZONGOLI
Brindisi, Palazzo Guerrieri dal 1 al 10 settembre 2005.

“Allora sei stato in India, Ti sei divertito”?
No.
“Ti sei annoiato”?
Neppure.
“Che ti è accaduto in India”?
Ho fatto un’esperienza.
“Quale esperienza”?
L’esperienza dell’India.
“E che cos’è l’India”?
Come faccio a dirtelo, l’India è l’India.
Alberto Moravia

Elisa Zongoli parte, com’è abituata a fare. Parte, viaggia con tutti i mezzi e visita luoghi molto diversi. Parte e poi ritorna e seleziona qualche immagine delle oltre tremila scattate. Le ordina in una mostra e così vediamo una parte del suo viaggio. Questa volta è l’India, alcuni luoghi dell’India, anzi alcuni pezzi della vite dell’India. IL COLORE NEGLI OCCHI questa volta ci porta per mano.
Essere nomadi: nomadismo dei sensi che riflette il meticciamento della personalità. Di questo si tratta per Elisa, ed in parte per chi osserva. Questa è la ricerca che ci porta dal noto alle incognite, che fa stare sempre ai bordi, ai margini delle cose stesse, e che , infine, ci riflette. Non ciò che riusciamo affannosamente a descrivere (come forma di autonarrazione) con parole sfuggenti e ampiamente insufficienti, ma la personalità di quell’io in quel momento, in quel determinato contesto storico-sociale. Un personalità in continuo movimento, quella identità liquida della quale siamo nell’oggi fatti, in un continuo divenire che tempo e spazio (anche quello profondo e quello virtuale) modellano.
Ricerca come trafigurazione, ricerca come gestione del conflitto: quel che c’è davanti, come anche quel che c’è dentro. L’avventura umana cominciò con l’essere nomadi: modo antico che si è depositato nel nostro subconscio, che monta spesso in superficie con in suoi capricci archetipali e con la bramosia di viaggiare che avvertiamo da adolescenti e ci accompagna tutta la vita. E questa se ne giova perché apre la mente.
Lo sguardo: il nostro sguardo, ma anche quello di chi ci sta d’innanzi e che guardiamo. Lo sguardo di chi ci guarda mentre lo guardiamo e il nostro che vede (guarda) ciò che altri occhi incrociano. Lo sguardo che si posa con discrezione (quello di Elisa) ma è anche mosso. Indugiare lento, avanzare fermi: finire con il perdere il baricentro nello spostamento continuo, come un lento respiro che sa di meditazione, ma guarda caso anche d’agonia.
E nella critica dello sguardo intravvediamo lo sguardo etnografico che non può sottrarsi all’agire tecnico, che ha anche un progetto. Ne nasce un rapporto complesso, e mai risolto, tra corpo-gesto-strumento che trova, temporanea dimora, nel rapporto tra corpo-occhi-protesi esterna nel cercare di indirizzare il tipo di ricerca. A questo punto la pellicola impressionata diventa il mezzo per esprimere simboli, sollecitazioni estetiche, incantamenti comunque manipolanti la realtà. Gli etnologi usano l’espressione di sguardo abile per tentare di circoscrivere il campo ( nel quale è sia l’osservatore che l’osservato) nel quale si opera. In questa abilità sta il continuo interagire di sguardi che s’affrontano, si evitano, passano a-traverso obiettivi, si dileguano e sono assenti. Da qui la molla degli scatti, della compulsione in una sorta di empatia verso il reale che non è mai appagata.
Landscapes dagli USA, Portrats dei bambini vietnamiti, PhotogrAfrica le mostre allestite in precedenza da Elisa Zongoli che, con IL COLORE NEGLI OCCHI, prosegue una sua personalissima narrazione: come il sopravvissuto protagonista di un vecchio film di Godard che torna dalla guerra al paese d’origine e apre una valigia piena di cartoline dei luoghi attraversati. Luoghi attraversati nei quali si cerca il “senso del mondo che è sempre fuori di esso” (Wittgenstein). Khilometri di strade in questa grande sterminata terra indiana: terra dall’orizzontalità assoluta, levigata come un mare pietrificato, combaciante tra terra e cielo in modo liscio e perfetto, lungo le strade della quale ti ritrovi, come fossero isole, in villaggi e città animati e colorati che spezzano quel silenzio monotono al quale non finisci mai di abituarti. Qui trovi, girando tra tumultuose sarabande di colori, tra suoni e incantatori di serpenti, tra il gridio di venditori e agonizzanti, sguardi e vite d’ogni genere. Non sbattute e buttate via com’è spesso d’uso nell’occidente sviluppato, ma vissute tanto da consumarsi, esaurirsi sino all’estinzione dei corpi, giacché l’anima, assecondando la cultura e la religiosità induista, trasmigra altrove. Città rimbombanti di rumori e salmodie, di stridori e scoppiettii, di nenie e suppliche d’aiuto. Città dove è la nozione stessa di non luogo che non ha senso, disadusi alle categorizzazioni e gerarchie dell’urbanistica di matrice inglese, e che pure appaiono senza centro se non quello di dove sei, dove stai in quel momento. E’ come se ogni giorno si costruisse un gigantesco, infinito, invisibile anche ai satelliti, mandala collettivo con i tanti granellini di sabbie colorate che altro non sono che le centinaia di milioni di vite in movimento verso una dimora provvisoria. Questo mandala che poi, a sera, la notte, svanisce, per ricominciare all’alba la nuova infinita e, ancora una volta, effimera costruzione.
L’India di Elisa è la vita di un altro continente senza relazione con quella d’origine, quasi autonoma, con altre leggi interne. Continente dove le vacche sono per le strade mescolate alla folla, accovacciate tra gli accovacciati, “…dal mantello diventato di fango, accovacciate ai bivi sotto qualche semaforo,…mucchi neri e grigi di fame e smarrimento” (PPPasolini); continente dove le donne vestono sari di vari colori da quelli semplici, degli stracci, a quelli liturgici, drappi tessuti con vecchia sapienza artigiana. Colori perdutamente accesi, senza delicatezza: verdi che paiono azzurri, azzurri che danno al viola. Tutto si riverbera sulle carni, negli occhi tinti d’attorno: tutto finisce con il riverberare sull’obiettivo che, pur operando una sorta di selezione, non può sfuggire alla violenza dei colori tanto da restarne scalfito.
La religiosità indiana, che è la più astratta e filosofica del mondo, è infine, nella realtà, una religione totalmente pratica, un modo di vivere nella indigenza più totale come nell’opulenza delle cerchie benestanti. Per questo nessuno è escluso dalle acque del fiume sacro e dalla città santa di Varanasi ( Benares). E qui, benché l’India sia anche un inferno di miseria esente però da ogni forma di volgarità, si immergono i cadaveri prima di bruciarli o si buttano, senza bruciarli, i corpi esanimi dei santoni. Benares come un lazzareto perché vi si giunge per morire e, come nella tradizione, per rinascere altrove.
Elisa Zongoli ci mostra e ci narra un frammento, anzi una esperienza personale, di questa composita India sapendo che “ogni fotografia diventa un certificato di presenza” (R.Barthes).
Due misure ma non due pesi. Questa è la mostra che propone due misure di stampe, in due modi diversi d’esposizione. E’ una diversa sottolineatura o solo diverso è il modo di prendere appunti, di fissare nella memoria? Sono realtà in contrasto oppure la voce quasi svanisce dinnanzi all’indicibile? La misura infima è dell’India che turba? Turba il lieve e/o distratto andare che abbiamo negli occhi? E’ il non voler trasformare il viaggio, insicuro e fascinoso, di scoperta e rifugio, che abbiamo negli occhi in una stagione all’inferno?. Comunque lo si guardi, dovunque si stia nell’infinita deriva giornaliera, Elisa Zongoli ci suggerisce dei colori per gli occhi per dare una diversa, anche se breve, luce all’anima che deve continuare a guardare, ed è guardata.

Brindisi, agosto 2005

emanuele amoruso

Mostre 2004:
PhotogrAfrica di Elisa Zongoli - video


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