Libri » 30/09/2005
Brindisi in "noir" nel nuovo romanzo di Osvaldo Capraro. Di Domenico Saponaro
Pomeriggio di luglio. Sono in macchina, ascolto la radio. Va in onda un’intervista all’autore di un romanzo appena pubblicato. Non è un libro qualsiasi: è un “noir” interamente ambientato a Brindisi.
Lo cerco nella prima libreria che incontro, mi dicono che arriverà a giorni, non intendo aspettare, continuo a cercarlo, anche fuori provincia, e il giorno dopo ce l’ho tra le mani.
Si intitola “Né padri né figli” (Edizioni e/o). Lo ha scritto Osvaldo Capraro, quarantaduenne, insegnante di religione a Monopoli dopo quattro anni vissuti a Brindisi da viceparroco e cappellano del carcere.
Un’esperienza tanto intensa da indurlo a trarne questo bel romanzo e a fare di Brindisi la scena di una storia cruda e appassionante.
Il libro narra vicende diverse che si intrecciano alla storia principale, quella dell’ascesa nella mala brindisina del giovane Mino, un sedicenne promettente a scuola e ancor più nel calcio.
Mino conosce don Paolo, giovane prete disposto ad aiutarlo, che intrattiene una relazione (clandestina ma non troppo) con Anna, educatrice nella comunità per minori, e deve fare i conti con un clero retrivo e per certi versi corrotto. Una corruzione più marcatamente rappresentata nel ritratto del “Napoletano”, capo della Sezione Catturandi, cinico e ambiguo co-protagonista – anche nelle espressioni più violente – della guerra di mala.
Una parabola avvincente, che muove dalla “famiglia malata” del protagonista (il padre, contrabbandiere alcolizzato e violento, abusa sessualmente di lui), passa per una comunità di recupero, sfocia nella criminalità organizzata impegnata nella guerra tra clan rivali che sparse sangue in città negli anni ’90.
I dialoghi sono asciutti ed essenziali; il linguaggio è semplice e, anche nel caso della voce narrante, filtra attraverso il lessico e la sintassi dei protagonisti in un “discorso indiretto libero” accattivante per i suoi toni realistici.
Un taglio narrativo quasi cinematografico evoca, inoltre, espressioni non lontane, anche nei contenuti, come il film “Sangue vivo” di Edoardo Winspeare
Capraro non indulge in descrizioni superflue dei personaggi né in raffigurazioni oleografiche delle ambientazioni: le figure, facilmente riconducibili ad una iconosfera già nota, si muovono in un contesto fosco, talvolta piovoso, in notturni assolutamente privi di ogni suggestione lirica.
Le stesse “bellezze straordinarie spesso poco valutate, talvolta avvilite” (come l’autore le definisce nella breve introduzione) di Brindisi, del suo mare, della sua campagna costituiscono una solarità solo avvertita o intuita nelle pagine del romanzo, uno sfondo alla crudezza oscura della storia.
Pomeriggio di settembre. Sono con Osvaldo Capraro, parliamo del suo romanzo. E’ una lunga conversazione che tocca i molti temi affrontati nel libro.
Partiamo dal titolo: perché “Né padri né figli”?
Il titolo mi è venuto in mente diverso tempo dopo aver scritto il romanzo, ripensando a due cose. La prima è un episodio reale, ossia la telefonata tra un giovane ospite di una comunità di recupero e suo padre. Mi sono rimaste impresse alcune frasi, da me casualmente ascoltate, rivolte dal figlio al padre, da cui ho colto un atteggiamento fortemente consolatorio del giovane nei confronti del genitore; quasi che egli volesse tranquillizzare e confortare il proprio padre, probabilmente afflitto da sensi di colpa e forti preoccupazioni per lo stato del giovane: i ruoli si erano totalmente invertiti ed io avevo ascoltato esattamente il contrario di quanto mi sarei aspettato.
La seconda cosa è una considerazione di carattere generale: i padri non sono soltanto i padri-genitori sono anche i padri “istituzionali”. Nel romanzo c’è una carrellata di istituzioni: la giustizia, la chiesa, la scuola, la famiglia (naturale e affidataria), fino all’ultima, la peggiore in assoluto, la Sacra Corona Unita. Queste istituzioni hanno difficoltà ad essere “padri”.
Inoltre, ci troviamo in un mondo dove, tra le tante guerre non ufficialmente dichiarate c’è quella del mondo adulto nei confronti dei ragazzi. Ci troviamo in un mondo dove 243 milioni di ragazzi sono costretti a lavorare; 85 milioni di questi hanno meno di 10 anni; 8 milioni e mezzo sono schiavi bambini che non hanno futuro ma non hanno nemmeno presente. E arricchiscono invece le tasche e i conti correnti di adulti. Questi bambini che portano il pane a casa degli adulti, dunque, in una sorta di schizofrenia sociale, di ribaltamento di ruoli, sono a loro volta “padri”.
Chi è don Paolo e quanto c’è in lui di Osvaldo Capraro?
Di autobiografico, poco quanto niente. Ma c’è molto dei tanti don Paolo che operano nella nostra realtà. Don Paolo, come gli altri personaggi del libro, non viene descritto fisicamente: non mi è sembrato funzionale alla storia, anche perché ritengo che la ri-costruzione fisica debba farla il cinema, è inutile in letteratura. Egli è un trentenne “mucciniano”, un confuso. In più deve fare i conti con un’educazione, quella ricevuta in seminario, totalmente inadeguata ad affrontare le situazioni che incontra. E qui c’è, di mio, l’aver avvertito questo: la totale inadeguatezza di un certo tipo di formazione in molti giovani preti, soprattutto quelli che cercano di darsi da fare, coraggiosi, che per questo sono da incoraggiare ancora di più, e da stimare.
Essi denoterebbero, quindi, una forte carenza culturale che determina una inadeguatezza sul piano sociale, soprattutto quando sono mandati a gestire situazioni difficili …
… Mancano proprio di strumenti per lavorare, innanzitutto sulla propria emotività, con cui devono giocoforza avere a che fare - anche perché sono soli - e inoltre per interpretare la società nelle sue regole più basilari ed elementari. Esiste in loro una carenza di infrastrutture concettuali di base per affrontare la contemporaneità.
Quanto tempo ha vissuto a Brindisi?
Due anni come viceparroco e altri due anni come cappellano del carcere: quattro anni di un’intensità …
Per rifarci ai personaggi del suo romanzo, lei è stato viceparroco di don Antonio o di Don Giuseppe?
Di nessuno dei due, direi. Il mio parroco non aveva il benché minimo desiderio di potere di don Antonio, né possedeva quella saggezza bonaria e un po’ furba di don Giuseppe.
Il suo percorso personale, soprattutto l’esperienza brindisina, dovrebbe averlo portato a ”immergersi” completamente nella storia, quella fatta di una quotidianità difficile, dei rapporti personali aspri e tormentati. Ciò, contrariamente a quanto sostiene nel libro, quando don Paolo dice di “galleggiare” sulla storia.
Quella di don Paolo è una dolorosa constatazione sul proprio stato, sul proprio rapporto con la storia. Scaturisce da una sua lunga riflessione, una sorta di flusso di coscienza, sulla “gelosia“ di Dio, asserita - e pessimamente interpretata - dal vescovo. La riflessione di don Paolo è molto dura, soprattutto riguardo al modo in cui il clero si confronta con i problemi reali di una comunità.
Di ritorno dalla cerimonia di ordinazione di un giovane prete, egli si interroga su cosa altro avrebbe potuto fare nella vita quel giovane, se non “rifugiarsi” in un seminario, non essendo in grado di mettersi in gioco, di costruirsi un lavoro, di affrontare il rischio della disoccupazione.
E discutendo con don Giuseppe, suo anziano superiore, don Paolo afferma sferzante che i preti non hanno la minima idea di cosa significhi lottare per sopravvivere, percepiscono una rendita vitalizia mensile, non devono presentare certificati medici in caso di malattia, né corrompere qualcuno per far lavorare i propri figli. Fino all’amara conclusione:”Noi galleggiamo sulla storia, non ci viviamo dentro”.
Nel racconto, il rapporto tra don Paolo e Anna si intreccia con le vicende di Mino, quasi a voler affermare una clandestinità “altra”, parallela. Quale dimensione assume, sul piano della trasgressione e della violazione dei principi, una relazione – in cui, peraltro, il sesso appare fondamentale - tra un prete e una educatrice?
E’ chiaro che, per la Chiesa, l’appartenenza a strutture criminali e totalmente disfunzionali per una collettività costituisca oggettivamente il massimo dell’errore. Detto questo, il rapporto tra sesso e vita consacrata è sempre stato di esclusione: la seconda esclude e non può ammettere il primo. Nella storia delle religioni la relazione è comunque marcata, perché in certi casi – si pensi alle prostitute sacre di alcune religioni pre-ebraiche della regione palestinese – la religione inglobava la sessualità purificandola. Altre religioni, invece, concepiscono la sessualità come qualcosa di intenso, di forte, che bisogna addomesticare per poi rimuovere: nel caso della chiesa cattolica, storicamente, si è giunti infatti a rimuoverla completamente senza più affrontarla. Alludo anche al problema della pedofilia diffusa nel clero americano; si sta avviando un programma di “visite pastorali” alla ricerca di situazioni gay per trovare un capro espiatorio. Il fenomeno è ben più grave e socialmente diffuso: è un coacervo di situazioni secolari rimosse che alla fine, in un certo contesto culturale, sono esplose.
Il problema che sta a monte – forse esagero - è una non accettazione dell’incarnazione: cioè il rifiuto del fatto che l’essere umano sia anche sessualità. Da parte delle gerarchie ecclesiastiche vedo una separazione anima/corpo nel senso proprio di un accantonamento, di un rifiuto della parte-corpo.
… un’antinomia tra anima e corpo concepita come contrapposizione tra bene e male, dunque?
Semplificando, forse sì, alla fine è proprio questo, è il timore dell’emotività delle persone, perché l’emotività porta comunque alla spontaneità, all’imprevedibilità: ora, quando una qualsiasi struttura è rigida, forte, l’imprevedibilità non ci deve essere e quindi, specialmente i preti non devono essere imprevedibili.
Nel romanzo un’altra istituzione, oltre alla Chiesa, viene dipinta a tinte fosche: basti pensare al personaggio del “Napoletano”, capo della Sezione Catturandi.
Ho cominciato a scrivere questo romanzo dopo il 2001, ossia dopo i fatti di marzo a Napoli e di luglio a Genova in occasione del “G8” (molti poliziotti, anche alti in grado, sono tuttora sotto processo con l’accusa di aver picchiato selvaggiamente e senza motivo, in quelle occasioni, decine di manifestanti, n.d.r). Ho degli amici nelle forze dell’ordine e il mio rapporto con loro è dialettico; apprezzo moltissimo anche alcuni scrittori poliziotti. Però, nel 2001 si è rotto qualcosa nell’immaginario collettivo, e purtroppo è stato subito rimosso dalle prime pagine dei giornali, che hanno dovuto ovviamente parlare dell’11 settembre. Non si sa più bene, per esempio, come stiano proseguendo i processi a carico dei poliziotti che si sono macchiati di quelle cose a Genova.
Un atteggiamento emotivamente stimolato, durante la stesura del romanzo, da quanto accaduto pochi mesi prima, può quindi averla indotta a non essere tenero con i rappresentanti delle forze dell’ordine …
… non dimentichiamo, inoltre, i noti fatti che alcuni anni fa videro coinvolta proprio la Sezione Catturandi della Questura di Brindisi. Certo, poi sta al lettore e alla sua interpretazione fare delle scelte in merito a quello che legge; per quanto mi riguarda, ho voluto mettere il dito nella piaga di certe situazioni e di descriverle in modo tale che suscitassero indignazione e rabbia – che ci sia riuscito o meno è un altro discorso.
Mino, ovvero: il disagio familiare, le molestie sessuali, la comunità, la violenza, l’affiliazione alla Sacra Corona Unita, e gli altri accadimenti narrati nel libro che, ovviamente non anticipiamo. E’ la parabola di un predestinato, il percorso obbligato di tanti “Mino”?
Io ho conosciuto tanti “Mino”. Mino non è solo un ragazzo; è un insieme di esperienze che comprende anche alcuni aspetti autobiografici della mia esperienza personale, perché in un modo o nell’altro, comunque, ogni personaggio riflette l’autore. Un po’ come nell’interpretazione dei sogni, dove, secondo alcune teorie, tutto ciò che fa parte del sogno è una tua proiezione, fosse anche il colore del cielo. Quindi credo che tutti i personaggi abbiano qualcosa di mio.
Tra i tanti “Mino” che ho conosciuto, qualcuno si è salvato. Il problema è Mino, quello del romanzo …
Questa storia è una specie di grido, un urlo che vuol dire “stiamo attenti” perché ci stiamo tagliando le gambe noi stessi, perché stiamo facendo come l’albero cui vengono tagliate le radici. Noi stiamo violentando i nostri figli, i nostri bambini; li stiamo diseducando totalmente. Non sono più capaci di riflettere, di ragionare, di pensare. Alla generazione del telecomando è seguita quella del telefonino. I bambini sono diventati delle cavie del consumismo.
Se questo è vero, se è vero che stiamo creando dei mostri, sempre meno capaci di pensare a se stessi e a quello che vedono, diventa sempre più difficile che ci siano dei “Mino” che riescono a salvarsi.
Senza voler anticipare nulla, si può dire che, narrativamente, la fine del romanzo coincida con una possibile fine anche per Mino. Metaforicamente, viceversa, la sua fuga finale, quel gesto titanico e umanamente impossibile, può rappresentare lo sforzo immane di fuggire da un mondo che forse non era - o avrebbe potuto non essere – il suo?
Sì, in effetti, è un’interessante chiave di lettura, pensando anche a un Mino che fino alla fine non ha abbandonato la sua ansia di sopravvivenza.
Nel romanzo è molto presente la musica (De Andrè, Neil Young, Edith Piaf, Jan Garbarek e Keith Jarrett) così come ricorrono spesso i nostri buoni vini e la cucina brindisina …
… mi è piaciuto introdurre questi elementi e ho voluto che in qualche misura caratterizzassero la narrazione; sono gli aspetti più autobiografici del libro, non potevano assolutamente mancare!
Domenico Saponaro
(La recensione del romanzo e una parte dell’intervista sono stati pubblicati su AGENDA BRINDISI n° 28 del 30/9/2005)
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