Cinema » 02/03/2006
"La Terra": la mossa del cavallo di Rubini. Di Marco Alvisi
Esco dalla sala cinematografica, subito come di scatto, e riprendo la via
per Mesagne, quella vera.
Nel percorso tra San Vito, dove ho richiesto asilo cinematografico a causa
dell’impossibilità di entrare in quello mesagnese, e Mesagne, mi aumenta un
fastidio che diventa via via incazzatura.
Il Sud di Rubini è un sud della memoria, mi dico, confermato a posteriori da
alcune sue interviste, ma allora perché non mantenerlo tale raccontando una
storia sospesa nel tempo e nello spazio; non Mesagne, ma Pesane, come
riportato erroneamente in una critica; non ora ma alcuni anni fa, senza
rimandi alla contemporaneità.
Il film mistifica l’immagine del Sud che io vivo e conosco, riportando una
quotidianità non reale. Mi si dirà, così è il cinema, una finzione in cui
tanti paesi ne rappresentano uno, una stazione abbandonata sostituisce
quella reale. Finzione appunto, anzi fiction aggiungerei io per rincarare la
dose. Insieme di stereotipi che io sento parlando con gli amici e parenti
del nord italia, mia terra d’origine. La stazione, spersa senza taxi è
realtà in molti paesini ma non del sud ma della provincia italiana, pure
nella pianura padana soprattutto ora, con la politica di abbandono delle
stazioni ferroviarie della FFSS S.p.A.
Gli attori: grande, per una volta, Claudia Gerini la più vera e la meno se
stessa e, ovviamente, Sergio Rubini aiutato da una parte fortemente
caratterizzata; gli altri recitano, come nella migliore tradizione teatrale
italiana, una parte con mosse e caratterizzazioni proprie della migliore
fiction televisiva di qualità.
Il film viene sostenuto oltre che dai temi toccati tipici di un grande
classico della letteratura, con un po’ di plagio “cammilerico” (leggere la
mossa del cavallo con il siciliano scappato a Genova che ritrova la sua
cultura messo alle strette da una malavita che rappresenta l’aspetto
deteriore dell’antropologia locale) anche da una ottima fotografia e
gestione della telecamera pieni di “citazioni” cinematografiche ma efficaci
nel rendere più emotivo il racconto.
Quanto alla morale potremmo riassumere così il film, paracadutato in un sud
tribale e moralmente malato, un emigrante rilavato dalla cultura milanese,
non trovando sponde e valori sociali e istituzionali (anche il fratello
“volontario e cattolico” tradisce tutte le proprie convinzioni trascinato
dalla legge del taglione che, si presume, gli scorra nel sangue) ritrova la
propria “famiglia” accettando le regole del luogo e risolvendo, senza
modificare lo status quo, il dramma familiare e morale. Assenza delle
istituzioni viste, nel caso dell’Arma, come inerti e un po’ ottuse.
Peccato per un film che non ha scelto né la estraniazione poetica, né il
realismo simbolico del quotidiano, né il comico grottesco di “Liberate i
pesci”, né il fumettone noir, ma saltando da questo a quello, e, come
ripeto, nel caso della migliore fiction televisiva ha fornito un prodotto
pieno di ottimi spunti ma superficialmente trattati.
Marco Alvisi
(bolognese naturalizzato mesagnese)
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