Approfondimenti » 25/04/2006
Vinicio Capossela, l’ultimo maudit tra poesia e mitologia
Un convegno di angeli e demoni. Il gioco di un cuore che pulsa al ritmo della terra, gonfio di attese e di passioni, da difendere a morsi e “a mascellate d’asino”.
Il domino è una creatura terrificante, nelle vesti di un Minotauro mitologico con un vello scuro di capro e una maschera di boves indosso. Agita i campanacci e urla, urla, incede e si dimena… “Non trattare… non trattare… non trattare la tua fede!”.
Il domino è Vinicio Capossela, giunto la sera di Lunedi 24 Aprile al teatro Impero di Brindisi con un tour che ha il senso di una missione diplomatica: quella di pacificare l’antica dualità tra realtà e sogno, sacro e profano, ballo e contemplazione, bellezza e deformità, i miraggi d’Oriente e le miserie dell’Est, le cortine dell’Ovest e la decadenza dell’Occidente, le rotte verso Sud e le avventure del Grande Nord, cinema e letteratura, poesia e mito.
Folle, disordinato, perfino tronfio di idee e di suoni, di creatività e di azzardi, il concerto è un rebus di suggestioni nel quale il pubblico si strania per quasi tre ore, assorto, incantato, trascinato in catene come nel ventre di una balena, inghiottito “come denti sparsi tra le gengive delle poltroncine vuote”. Il circense solleva il sipario e prosa le storie di Ovunque Proteggi – l’album che per la prima volta nella storia del cantautore ha toccato la vetta della classifica in una sola settimana – in una sequenza di umori, ambienti, cambi di pelle e di registro. Un’”Odissea mitica e via crucis profana” difficile da raccontare, un semicerchio di terra e di tempo costellato tra la mitologia (il Minotauro e Troia), l’antichità (il Colosseo) e la conquista dello spazio.
La prima parte dello spettacolo è dedicata al nuovo album, con due temi centrali richiamati dall’artista durante la serata: l’amore e Cristo. Parte con l’assalto ipnotico di Non trattare, nenia arabeggiante che lancia invettive e crociate contro il mondo omologato. Poi via a un carosello di immagini, ora circensi ora drammatiche, ora toccanti ora magicamente rarefatte, che spaziano dai continui cambiamenti di tempo di Dove siamo rimasti a terra Nutless, chanson jazzy dedicata alla nostalgia dell’adolescenza, “dei veri amici scomparsi ai quali hai concesso la confidenza di una scazzottata”, alle baldorie da festa paesana de L’uomo vivo alla dolente poesia della ballata Pena de l’alma passando per il gigantismo de Il Colosseo.
Per ogni brano l’istrione indossa abiti e costumi diversi, come se quello dei travestimenti fosse la sua ultima mania, e si accompagna alle proiezioni animate del Teatro d’Ombre Controluce di Torino (ussari e dragoni all’attacco in Nutless, vascelli e anime dannate in S.S. dei naufragati, danze degli scheletri in Pena de l’alma). E a ogni brano anche un cambio di atmosfere: una somma di elementi popolari, colti e furbeschi che fanno stravedere il pubblico così come le battute del mattatore. Che poi lascia la band e rimane da solo al piano, nel “regno di incorporeità” che lo circonda e dal quale si lascia proteggere (“Questo è l’unico teatro che contiene anche le poltrone degli assenti, la parte da sempre più forte”).
Nella sua veste di “cantattore”, Capossela si muove tra ritmi saltellanti, mitologia e divertissement vari. E così questa volta sul palco, in un tripudio di valzer, marcette e cha cha cha, cambia d’abito ma rimane sempre lo stesso personaggio: fa se stesso pure quando in Dalla parte di Spessotto racconta di questo eroe un po’ Pinocchio e un po’ Franti, nato senza colletto e senza fiocco al grembiule, di un’infanzia vissuta da loser, dalla parte opposta dei privilegi e dei buoni consigli.
Uno sciamano osannato qualunque cosa dica o faccia, un saltimbanco in bilico tra poesia e realtà, uno chansonnier moderno al quale tuttavia manca la maschera compiaciuta dei propri componimenti. Il resto del tempo lo passa in un altro mondo, magari a bere vino o tè russo mentre Majakovskij dispera la sua vita contro una lettera d’addio, in cucina col camino e il tavolaccio vissuto, immaginandosi il Colosseo dell’antica Roma ma dalla parte della polvere, non in tribuna.
Oppure rivoltando il mito omerico di Troia e spiegando l’aggressività con la facile presa di “erre” (“Brucia Troia è un assalto di erre, Elena che non ne ha non la tocca nessuno”). O infine trattando fin dalle viste del Mediterraneo un Contratto per Karelias, una dedica rebeteke che arriva dritta a Brindisi e alle sue “traghettazioni verso la Grecia”, nota grossomodo saliente della città.
Dalla stiva del vascello, nel ventre dei flutti, tra legni fradici e spiriti di morte, si leva in cielo la S.S. dei naufragati, una litania in mare minore ispirata alla Ballata del vecchio marinaio di Samuel Coleridge, nella quale si racconta di “un capitano che non esita a mandare alla deriva i suoi uomini e la sua nave” e della conseguente invocazione alla “Santissima”.
Chiusa la prima parte dello spettacolo, Vinicio Capossela pesca nel suo repertorio, come al solito cambiando bizzosamente la scaletta a seconda dell’umore o dell’attimo passato per caso di lì. La seconda parte si apre con Maraja e inanella una dopo l’altra le sue icone classiche più attese, da Che coss’è l’amor a Morna, passando per Al veglione e una versione moderna e ricca di campionamenti de Il ballo di San Vito, suonata con la danza e le figure di un tamburello di Patù, e finendo con i versi dichiarati, balenanti e amorosi di Ovunque proteggi, eseguita con le luci della sala accese per offrire il palco al tributo dei fan acclamanti, pronti a raccogliere ogni sberleffo, ogni provocazione, ogni pazzia o genialità del loro “Mentore”.
Lui intanto continua a giocare. Con le movenze di un mimo e l’accortezza di un cantastorie, con le smorfie del cristo risorto portato in processione e in osteria per le strade di Scicli, con l’ausilio del teatro delle ombre (apprezzato quanto lo stesso repertorio dell’artista), con le ultime melodie mediterranee e le sonorità ritmiche dei Balcani.
Nello spirito di Vinicio Capossela rimane forte anche in questo tour quel senso e quel carattere di randagismo che lo porta a ricercarsi fuori della propria stanza, con il lume rosso di altre culture, di altre epoche e dell’epica leggendaria.
Con una rosa gialla e una rossa ripiegate nel taschino della giacca… “un bacio da qui alla nostra Brindisi”.
Roberto Romeo
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