Approfondimenti » 01/05/2006
Rigassificatore: il "No" indistinto della coscienza civica. Di Roberto Romeo
I terminal di rigassificazione stanno diventando particolarmente di moda dopo il caso creato attorno al gas di Putin; la parola d’ordine europea è diversificazione delle fonti, politiche energetiche comuni e rimozione di ogni barriera interna all’approvvigionamento energetico. La Puglia, con Brindisi in prima linea, si proietta in questo scenario come uno dei principali poli energetici europei, ovvero come snodo cruciale delle vie energetiche dal Mediterraneo all’Europa centrale. Un’attesa e una svolta possibile che non conforta l’opinione pubblica interessata e che, per l’approccio inflessibile e impositivo con cui la parte governativa tratta il tema, foraggia i dubbi e provoca la coscienza civica alla protesta civile. L’allarme terminal viene lanciato nell’ottica consapevole e dialettica di un sistema di interessi, proprio delle lobby energetiche, che si appiglia ai benefici del corridoio intermodale europeo, alle sacre ragioni della emergenza energetica e alle teoriche e imprescindibili necessità di sviluppo industriale attraverso non meglio precisate logiche di filiera e induzione.
La protesta ha dunque lo scopo di arginare una progettazione autarchica in cui il dominus decisivo sia rappresentato dall’investimento partecipato e l’ambiente digradi in dettaglio insignificante. Brindisi, la cui storia si interseca inevitabilmente con la sua centralità, quella del suo porto naturale, nel bacino del Mediterraneo, presenta il conto di tributi e contributi pagati alla chimica e all’energia nazionali, dall’insediamento di uno dei più grandi poli petrolchimici d’Europa degli anni Cinquanta a quello di una megacentrale termoelettrica (intitolata paradossalmente a Federico II di Svevia, un lontano precursore della moderna cultura dell’ambiente e dell’ecologia) che avrebbe dovuto bonificare secondo i piani d’impresa e di sviluppo le secche occupazionali del territorio e creare un indotto polare a favore essenzialmente dell’agricoltura; dalla localizzazione di una seconda centrale all’impianto di un inceneritore di rifiuti speciali pericolosi, una delle due sole discariche italiane assegnate al trattamento dei rifiuti tossici. Un processo di colonizzazione che, oltre a non avere a fondamento un piano di sviluppo organico e coerente con i caratteri tipici del territorio, ha prodotto un’iperdensità industriale distribuita su un tessuto casuale e disordinato e violentemente corruttivo degli stati ambientali. Un processo che ha fatto delle vecchie dune e delle coste balneabili “area di crisi ambientale” fin dal 1990, “sito inquinato da bonificare di interesse nazionale” dal 1998, distretto speciale di sette impianti ad “alto rischio di incidente rilevante”.
Oggi Brindisi intera, la società civile e la classe dirigente e politica, vive una presa di coscienza con gli strascichi di impoverimento e dissoluzione dispersi incontrollatamente da un modello di sviluppo sul quale, nonostante tutto, nonostante un presente profondamente disatteso, si vuole perseverare argomentando convenienze e opportunità associati al benessere della comunità. Una presa di coscienza che gira attorno alla querelle sull’impianto di rigassificazione voluto dalla British Gas e dal Governo italiano, a dispetto di una norma del 1998 che nella zona designata pone di converso un vincolo di delocalizzazione dei rischi industriali; e nell’ombra ordita di un iter amministrativo singolarmente semplificato e spedito che ha omesso la procedura di valutazione di impatto ambientale riducendo il peso delle istituzioni locali al parere parziale di un’affrettata conferenza di servizi e negando che la questione si esponesse invece al vaglio da una parte degli organi istituzionali deliberativi, dall’altra al pronunciamento popolare mediante referendum (prescritto dalla normativa comunitaria in materia di impianti industriali oggettivamente pericolosi).
Nessuno può negare che i terminal di rigassificazione comportino una serie di conseguenze ambientali e di rischi per chi vive nelle vicinanze. Gli esempi di devastanti esplosioni con non poche vittime umane risalgono al 1944, quando un terminal gas deflagrò a Cleaveland. Ma se quell’incidente fu presto ricondotto ai ritardi della tecnologia invalsa al tempo, le recenti esplosioni di impianti di gas naturale liquido (GNL) in Algeria (2004), Belgio (2004), Nigeria (2005) non lasciano dubbi; anche le attuali tecnologie non escludono il pericolo di incidenti con esplosione. Oltre a ciò, le navi gasiere, vere e proprie bombe galleggianti ad altissimo potenziale, verserebbero il loro impatto sul traffico crocieristico stanziando la navigazione in un fazzoletto circoscritto di mare.
Sull’emergenza ricadono non ultimi anche il rischio terrorismo e le influenze sull’ambiente d’acqua, tra i rovesci più silenti e meno visibili del processo. La sublimazione del GNL, che arriva a bordo delle navi gasiere a una temperatura di meno 160 gradi, richiede enormi quantità di acqua per lo scambio termico (23 mila metri cubi all’ora). L’acqua utilizzata torna in mare a una temperatura inferiore e, depositandosi sul fondo (a causa del maggior peso), altera inevitabilmente gli equilibri termici e di conseguenza anche quelli biologici.
La vicenda nel suo complesso rappresenta la testimonianza di un’opposizione unanime, universale che rinsalda le parti più critiche e “martoriate” della città, le espressioni più diverse del corpo sociale, maggioranze politicamente diametrali, per traghettare la protesta fino all’idea strategica e condivisa di “un’altra Brindisi possibile”, orientata al recupero dell’antica vocazione di snodo per il traffico mercantile e turistico tra l’Europa e il Mediterraneo orientale e all’impiego sostenibile e sistemico delle fonti energetiche rinnovabili. Un’opposizione massiva e corale che sottolinea, al di là delle miserabili guerre dei numeri e degli affanni strumentali di chi le insinua, la nuova maturità dell’opinione pubblica su temi cardinali come la sicurezza, la conservazione dell’ambiente, la salute, lo sviluppo sostenibile e, non ultimo, il diritto all’autodeterminazione nei casi di aperta spaccatura con interessi e voleri alieni. Provincia e Comune rivendicano l’esclusiva competenza a decidere dello sviluppo del proprio territorio, alla luce della più centrata e diretta valutazione dei fattori di debolezza e di criticità, dichiarando preferenza per quei modelli che creino e incentivino ricchezza valorizzando le rendite naturali e il retroterra culturale, distraendo gas, carbone, discariche e subappalti da una città snervata e investendo sulla logistica del porto, sulle relazioni con le periferie del Mediterraneo, sull’innovazione applicata all’agricoltura, sulla ricerca e sull’università.
Il fronte comune delle istituzioni locali e regionale, i primi atti della magistratura e della Commissione Europea sono segnali di una levata popolare e politica che in questi mesi si sono incrociate e sovrapposte più volte: più forti della propaganda mediatica di ricucire lo strappo occupazionale di cui la città soffre cronicamente; più pronte delle caratterizzazioni e delle messe in sicurezza dei tratti di costa e degli ettari di mare destinati all’impianto cui il Ministero dell’Ambiente ha proceduto con eccezionale premura; impassibili ai tentativi governativi di infondere nell’opinione pubblica l’idea salvifica di uno spostamento dell’impianto in altro sito, fatti senza nel frattempo regolare i lavori di colmata in corso a Capo Bianco (previsti dal piano regolatore portuale del 1975); impassibili pure all’onda emotiva generata dai paventati tagli alle fonti di approvvigionamento russo-ucraine; infine diffidenti di fronte alle lusinghe di contingentare il gas ai fini della conversione delle centrali a carbone di Brindisi, una soluzione che fonda tutta la sua antieconomicità sulla sensibile differenza di costo delle materie prime, e che in questi anni ha permesso a Enel ed Edipower di sopravvivere a decreti ministeriali di chiusura e di riconversione. Una cerniera di opinione che nega una scelta di tipo industriale, con tutte le pregiudiziali del caso, anche alla luce del piano di stabilità energetica che prevede, tra l’altro, l’inalveazione di una rete di gasdotti, l’ultimo dei quali arriverà nel Salento dai Balcani con una portata per anno di 8-10 miliardi di metri cubi, e la costruzione di impianti di rigassificazione condizionata tuttavia a vincoli di ordine ambientale e alla volontà, espressa chiaramente e disciplinata in senso garantista, delle istituzioni e delle comunità locali.
Roberto Romeo
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