Approfondimenti » 18/11/2006
Teatro delle mie brame. Di Emanuele Amoruso
- Ci mancherebbe che non si fosse contenti per la prossima costituzione della Fondazione “Teatro Verdi” che dovrebbe gestire il teatro comunale di prossima apertura (o riapertura?).
Di fronte ad ogni “cominciamento”, che come questo si annuncia “epocale”, c’è solo da contenere le emozioni e i sentimenti, forma di scaramanzia della ragione. Tutto il resto viene da sé: a cominciare dalla speranza che si faccia davvero sul serio.
Appunto che non si riviva un’esperienza di disillusione che vedrebbe l’accoppiata frustrazione e sfiducia continuare ad andare a braccetto verso la dequalificazione complessiva della cosidetta qualità della vita cittadina e territoriale.
Vivere il cominciamento come “statu nascenti”, condizione di ogni fatto “amoroso”, non può prescindere da un forte coinvolgimento della sfera della volontà rispetto al realismo della ragione, e proprio ciò impone che nell’ovvio succesivo smorzarsi delle passioni si ritrovino ben salde radici e fondamenti che la “nuova” avventura smuove e pone come base “istituzionalizzata” dello stesso movimento posto in essere.
Lo statu nascenti, in genere, “esalta” i soggetti e per evitare che la stessa esaltazione intossichi c’è bisogno di una grande dose di “razionalità” che, per dirla con Weber, deve tenere insieme l’agire rispetto agli scopi, ai valori, agli affetti, alla tradizione.
- Dotare il territorio di infrastrutture per la cultura è sempre importante, ma tanti Maestri, drammaturghi e/o registi e/o attori, hanno sempre sottolineato come “il teatro non sono gli edifici ma gli uomini e le donne che lo fanno”. Come dire che forse, e soprattutto in Italia, impieghiamo grandi risorse, sopratutto finanziarie, per costruire e/o ammodernare gli edifici, facendo mancare spesso (lo si ri-vede ogni anno nella dotazione per il Fondo Unico dello Spettacolo inserito nella Legge Finanziaria) il sostegno certo e continuo soprattutto allo ”spettacolo dal vivo” ed alla cultura in genere.
- Ogni buon storico del teatro conosce quanto lo stesso teatro nel novecento abbia in qualche modo “riflesso” ma anche “criticato” la società che gli “correva affianco”. Lo ha fatto, attraverso generi e autori, esprimendo la voglia di divertimento, ma anche indagando la crisi della “morte di Dio”, rappresentando varie forme di conflitto sociale, generazionale, della famiglia, del soggetto di fronte al dramma individuale e collettivo. Insomma ha detto del dramma storico come dell’equivoco, del disincanto come della passione amorosa.
- Avviso ai naviganti: possiamo oggi continuare a ritenere che le forme e i contenuti del “dire” pubblico attraverso il ricorso alla espressione artistica passi ancora “dentro” la modalità teatrale “tradizionale” o piuttosto essa, sto parlando della “cultura” cui attribuisco la funzione che ci consente di dare significati all’esistente, “attraversa” in mille modi, mai stabili, gli individui come utenti di simboli, di narrazioni, di costruzioni di senso che plasmano l’azione razionale per consentire di proteggerci dal caos e orientarci?
Dunque: quale società abbiamo d’innanzi? Essa è ancora “classificabile” secondo gli approcci del “buon selvaggio”, dell’acculturazione, dell’educazione, della cultura alta e di quella popolare, delle classi sociali e delle generazioni? Ha ancora un senso parlare di bacino d’utenza piuttosto che di “nuove tribù del consumo”, anche dei cosiddetti consumi culturali? Ma cosa oggi è il dentro e il fuori dai consumi culturali quando tutto, per dirla con Levi Strauss, è diventato “cotto”, cioè tutto passa attraverso il forno della “cultura” che ha fatto sua la “natura” e quindi anche i cosidetti “bisogni primari”? Quale “corvo”, di pasoliniana memoria, si deve mangiare, a prescindere?
- Acta est fabula: lo spettacolo è finito. Ma per noi sta per cominciare e non vogliamo rappresentare nulla che non sia un “progetto culturale”. Come ci regoliamo con il “non pubblico” (circa il 90% secondo recenti ricerche) e con i vari “stili” della comunicazione-rappresentazione sociale” (comprese le subculture)? Essendo necessaria, secondo la convinzione di tutti gli addetti ai lavori, la necessità di una “rigenerazione” (di contenuti, generi, modalità spaziali della fruizione, percorsi di avvicinamento ecc.) come distinguere “contenitore” ( infrastruttura e costi) dai contenuti (progetti, reti e dinamiche socio-culturali)? A quale “tipo” ci rivolgiamo: a quello da spiaggia, da salotto, da centro commerciale, da happy hour, da periferia, da festa di beneficenza o da rave party, da famiglia o single, da parrocchia, da palazzetto, da scuola di musica, da teatro in vernacolo, da clubs, da sfigato, giovane, meno giovane, city users o residente, ecc.?
Per questo c’è da ragionare un po’: un progetto culturale non potrà essere il cartellone. Per diventare “sostenitori e aderenti” (figure previste dalla bozza di statuto che si impegnano per tre anni a sostenere la Fondazione) basterà conoscere a quale campionato giocheremo e con quali giocatori e tecnici e in quale disciplina? Si potrà forse “partecipare” alla individuazione di ciò? Si dovrà: si deve dire “si” se si vuole quello statu nascenti collettivo. La stessa bozza di statuto delinea questo come scopo della Fondazione: “programmare, promuovere e realizzare le iniziative per la conoscenza, la formazione e lo sviluppo ….della cultura in genere, quale contributo alla crescita della collettività”.
“Una cosa di bellezza è una gioia per sempre” scriveva Keats e questo, solo questo dobbiamo aspettarci. A questa tentazione non sappiamo proprio resistere: da tutto il resto ci difende il disincanto. A ciò deve essere pronta la società nelle sue articolazioni (istituzioni, associazionismo, imprese, cittadini, tecnici ed esperti): anzi siamo pronti?
Emanuele Amoruso
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