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Approfondimenti: Riappropriarsi del passato. Di Guido Giampietro



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Approfondimenti » 24/11/2012

Riappropriarsi del passato. Di Guido Giampietro

Lo scrittore tedesco Michael Ende ne “La storia infinita dalla A alla Z” affermava: «Siamo andati avanti così rapidamente in tutti questi anni che ora dobbiamo sostare un attimo per consentire alle nostre anime di raggiungerci». E dal momento che il ricongiungimento con l’anima è un fatto troppo importante per non tenerne conto, conviene dunque fare una sosta. Per pensare. A cosa? Per esempio, al presente ed al futuro di questa città.
Il che, per l’equazione temporale che lega il presente al passato, significa dover riandare indietro nel tempo. E da quale luogo iniziare il viaggio? Da Porta Lecce, una delle due Porte superstiti dell’antica cinta muraria brindisina. Quella costruita dagli Aragonesi nel 1464 e completata intorno al 1530 ad opera di Ferdinando Alarçone, architetto militare di fiducia di Carlo V di Spagna.
Ma perché una sosta proprio qui e non davanti a Porta Napoli o ad uno dei Bastioni? La scelta di Porta Lecce ha una duplice motivazione. La prima è legata allo stemma marmoreo della città di Brindisi che fa bella mostra di sé sul timpano al di sopra dell’arco. Anche se poi l’emblema cittadino risulta di più ridotte dimensioni in confronto non solo a quello troneggiante dell’imperatore Carlo V (e fin qui la differenza ci può stare) ma anche a quello del suo vanaglorioso architetto Alarçone.
La seconda è la riflessione sulla infelice condizione della Porta da troppo tempo (in riferimento alla mia corta memoria storica, naturalmente) soffocata dalle costruzioni che impunemente le tolgono il respiro. A differenza di quello che avviene nel resto del Paese ove le antiche Porte, se non rappresentano una vera e propria entrata scenografica nella città, quanto meno non vengono mortificate da vicinanze a dir poco penose.
Poi, d’improvviso, a riaccendere la speranza di restituire al monumento l’aria e lo spazio ingiustamente sottrattigli, soccorre la lettura d’un avviso di vendita affisso al balcone dello stabile che, come un pungolo, gli martirizza il fianco sinistro, impedendo al viandante-turista di scorgere il congiungimento della Porta al tratto occidentale delle mura di cinta. E non è tutto! Perché, volgendo lo sguardo a destra, si notano altri cartelli di vendita di appendici ˗ fino a non molto tempo fa presumibilmente adibite a magazzini e/o officine ˗ che si trovano anch’esse appoggiate alle vecchie mura.

E allora? Perché mai la vendita di quelle costruzioni dovrebbe chetare la rabbia per uno dei tanti insulti che, nel tempo, sono stati rivolti ai resti della nostra storia?
Diceva Natalia Ginzburg: «È vero che più passano gli anni e più si accrescono le risorse della nostra pazienza. Sono le nostre sole risorse che si accrescono. Tutte le altre tendono a prosciugars»”. Dunque, con un po’ di pazienza, che è poi quella proverbiale dei brindisini (erroneamente confusa con l’apatia!), cercherò di chiarire meglio il mio pensiero.

Da qualche anno, nel basso Salento, è stata costituita ˗ tra gli altri dal regista Edoardo Winspeare ˗ l’associazione “Coppula tisa” che prende il nome dal personaggio del fumetto satirico ideato da Norman Mommens e raffigurato da una lucertola con la coppola all’insù, come usavano i nostri fieri contadini d’una volta. L’associazione, grazie a contribuzioni pubbliche e private, si prefigge lo scopo di acquistare costruzioni di vario genere classificabili come brutture nei confronti del paesaggio (ultime, in ordine di tempo, le discariche abusive sorte, come funghi, nelle campagne e lungo la costa) e, successivamente, abbatterle o comunque farle sparire al fine di restituire dignità al territorio.
L’obiettivo, contrariamente a quanto può apparire, non è tanto la demolizione spettacolare (tipo quella dell’ecomostro di Punta Perotti), quanto la costruzione di una nuova cultura che riaffermi la supremazia del bene naturalistico o storico, e perciò stesso da tutti godibile, rispetto a quello privatistico, necessariamente egoistico.

E chi se non l’Amministrazione comunale, che di tali “delitti” contro il patrimonio storico-culturale della città si è più di tutti macchiata nel tempo, può provvedervi?
Anche se, ad onor del vero (come riferito dal prof. Andriani in “Brindisi da capoluogo di provincia a capitale del Regno del Sud”), proprio nel caso di Porta Lecce fu un sindaco ˗ Filomeno Consiglio ˗ a battersi affinché la Porta, già nel 1859, non venisse demolita a causa delle continue infiltrazioni d’acqua che ne avevano danneggiato seriamente la volta di copertura.
Fu dunque la perseveranza di quel sindaco ad opporsi alle ingiunzioni del Comandante della Reale Piazza di Brindisi e, successivamente, del Ministero della Guerra, entrambe finalizzate alla demolizione delle “fabbriche vecchissime e crollanti”. Finché una delibera di restauro, votata all’unanimità l’1 aprile del 1860, non salvò Porta Lecce.

Ma dopo? Chi ha autorizzato, dopo, la costruzione di quei manufatti che ora vengono messi in vendita? Chi, nel 1903, ha permesso d’impiantare, proprio a ridosso del corpo di fabbrica adiacente a Porta Napoli, la cosiddetta “Officina Elettrica” (il contenzioso con l’ENEL, come si vede, affonda le origini molto lontano nel tempo…)? Chi non ha alzato un dito per salvare dalla demolizione il Bastione S. Giorgio che “doveva” far posto alla Stazione Ferroviaria (quando, invece, sotto la Stazione Termini sono stati giustamente preservati i resti di manufatti attribuibili all’età degli Antonini…)? Chi ha lasciato che venisse spazzata via la terza Porta della cinta, quella Reale? Chi ha consentito, agli inizi degli anni Trenta, la realizzazione in Via C. Colombo d’una possente incamiciatura “piena”, in blocchi di tufi di càrparo, a contenimento d’un terrapieno realizzato (anche questo!) a ridosso delle mura di cinta? E chi, amministrativamente parlando, ha decretato la fine anche dell’ultimo dei Bastioni, l’Arruinado?

E, si badi bene, questo “je accuse” si riferisce unicamente alla demolizione e/o sparizione di tratti della cinta muraria! Come dire che si stanno volutamente tralasciando le altre mostruosità che la civica Amministrazione ha perpetrato a danno del mai troppo rimpianto Teatro Verdi, del Parco della Rimembranza, della Torre dell’Orologio e via di questo passo.
Dunque giustizia vorrebbe che fosse il Comune ad acquistare quei fabbricati ora fortunatamente in vendita (ai prezzi correnti di mercato, naturalmente!) e, dopo averli abbattuti, a sistemare convenientemente le aree così liberate. Magari con qualche panchina ed un po’ di verde che offra al cittadino ed al turista la possibilità di godere in pieno della bellezza di Porta Lecce e, perché no?, vedere i camminamenti di ronda, i parapetti e le cannoniere deputati ad assicurare la più efficace difesa del lato orientale delle mura. O fantasticare sul trambusto che, nei momenti di pericolo, doveva esserci nei due locali voltati a botte ˗ situati a destra e a sinistra della parte interna della Porta ˗ ed adibiti a polveriere e alle esigenze proprie dei Corpi di Guardia.
Ma, in definitiva, a parte una provocatoria possibilità di “riscatto” che si offre al Comune, qual è il senso vero di questa operazione (minima!) di recupero? Si tratta dell’assunzione d’una “responsabilità storica collettiva sull’uso del territorio e sulla generale perdita del senso della bellezza”. Oltre che della necessità di riappropriarci della nostra storia, per cercare di capirla. Perché se non si capisce la storia non si capisce l’oggi. E qualsiasi progetto di cultura rischia di diventare un vacuo esercizio d’immagine fine a se stesso.

Guido Giampietro


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