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Arte: L'Angelo pugliese "alla Biennale di Venezia". Di Massimo Guastella



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Arte » 07/09/2007

L'Angelo pugliese "alla Biennale di Venezia". Di Massimo Guastella

Angelo Filomeno aveva sette anni quando i suoi genitori, ogni giorno dopo la scuola, anziché andare a giocare, lo mandavano ad apprendere da un sarto il mestiere, a impegnarsi a cucire pantaloni, con una precisione dei punti che doveva sembrare fossero cuciti a macchina e non a mano. O, parrebbe, nella medesima attività manuale iniziato segretamente dalla madre sarta.

Questo è un sunto delle tante dichiarazioni virgolettate che descrivono, con attrattiva favolistica, le origini di un bambino di San Michele Salentino che in quella costrizione avrebbe trovato in avvenire la consacrazione e la notorietà artistica.
Ché non di uno stilista stiamo parlando ma di un artista visivo, in questo momento all’onore di titoli e resoconti stampa essendo presente tra le personalità internazionali di alto profilo scelte da Robert Storr per la 52a Biennale di Venezia.
Storr artista e critico e nella circostanza primo curatore americano della storia della Biennale veneziana, come rimarcano le cronache dalla mostra in Laguna, tra i non molti artisti italiani proposti nella mostra cardine, intitolata “Pensa coi sensi – senti con la mente. L’arte del presente”, ha inserito Angelo Filomeno, che non di rado le note biografiche indicano quale italo-americano e taluna opinione sfavorevole “poco convincente e molto yankee”.

Affatto originario di San Michele Salentino, pur se nato a Ostuni nel 1963, dopo il diploma conseguito all’accademia di Belle Arti a Lecce avverte il suo paese “stretto” per le ambizioni nutrite. Migra nel 1987 a Milano interessandosi di teatro e inserendosi negli ambienti della moda e del design.
Per quanto ben introdotto nel “mondo” milanese, gli sono sufficienti cinque anni per preferire una meta più adeguata alla sua verve creativa: New York.
Oltreoceano ritornano utili le sue abilità sartoriali impiegandosi per le creazioni dei costumi teatrali di Broadway.
Ed è per il suo estro l’occasione giusta per traguardare il buon esito artistico.

Affiora per intero l’innato talento, la sicura tecnica del cucito, che coniuga con le salde radici culturali. La sua produzione si caratterizza per la novità del modo di concepire l’arte del ricamo su seta o cotone in una dimensione raffinatamente estetica. Che usi la macchina da cucire o ricami a mano libera per completare un dettaglio minuscolo la sua è una “pittura plastica”, che rifugge da composizioni prettamente decorative. Anzi non ama che le sue creazioni siano additate quali tappezziere ornamentali, pur se talune critiche vi osservano un nostalgico decorativismo.

Più volentieri la sua opera, talvolta concepita con estensioni scenografico-teatrali, riflette il suo sentimento rivolto al mondo naturale, animale e vegetale e minerale. Attraverso una eleganza compositiva si osservano cosmi noti per richiami arcani e universi segreti e inquietanti. I
suoi assemblaggi su shantung indiani – realizzati al telaio -, ricamati in fili di seta e poliestere ora a zig zag oppure resi manualmente sinuosi, risaltano una vena affabulante, onirica, densa di simbologie, sovente dedotte dalla tradizione. L’impianto cromatico è pittorico e mediterraneo. Allude ai climi, ai cieli, alle terre, alle vegetazioni, alle ambientazioni, ai riti e alle mitologie di un vissuto indimenticato e al quale volentieri si relaziona.

Le immagini sembrano risalire da profondità leggendarie per prorompere sulla superficie dei tessuti; sfarzose o minimali, trasognate e passionali, in mescolanze formali, ricercate nella finezza tecnica e nei rilievi dei coralli e cristalli di Swarovski, quelle rappresentazioni esaltano il carattere artigianale del cucito e rendono protagonista, vivificandola, la tradizione dell’arte tessile. Cucendo accuratamente e finemente Angelo Filomeno si colloca in un indirizzo di ricerca interessato fortemente alla riabilitazione creativa dell’esecuzione artigianale. E questo è un dato di originalità e autenticità che accredita tutta la sua opera, tra la tanta tecnologica ripetitività e ovvietà artistica a cui stiamo assistendo nei tempi recenti.

Vi affianca la sua singolare poetica, dove trova spazio la contrapposizione di morte e vita, un ciclo inarrestabile, testimonianza di dolore e seduzione nella natura che si rinnova. Contrasti forti, perfino esagerati, evocati dalla memoria e tradotti artisticamente, come ad esempio in End of presumption del 2003, con la preparazione tassidermica di un pavone sospeso testa in giù che rovescia il rosso del sangue vetrificato.
A proposito Angelo Filomeno rammenta di quando sua madre “uccideva i polli… poi li appendeva ad un candeliere per far gocciolare il sangue. Lei non aveva scelta. Noi non avevamo un recinto, e se avesse messo il pollo fuori, nella strada, i cani e gatti lo avrebbero mangiato” .

Si riscontra un melange di sontuosità tecnico-materica e senso di caducità: tematica al bivio fra sacralità atemporale e corruzioni fisiologiche; nell’arte del salentino sembrerebbe riaffermarsi una tendenza estetica neobarocca. Anche in questo s’avverte la marcata matrice regionale, il Salento.

A Venezia espone macabri scheletri -quasi fossero una cifra stilistica della sua produzione come in Re e Regina-, di shantung di seta, nei disegni dorati ricamati su grandi pannelli blu notte. Parlano di morte, di fragilità in una composizione che ha in sé suggestione teatrale. La percezione dei ricami appare ancora una volta coinvolgente, risplende e mette disagio, seguendo una linea dialettica coerente con lo scenario tematico circostante, quello prevalentemente dai più proposto su basi concettuali nella biennale 2007, che nel presente avverte tanti pensieri di morte che tormentano le menti.

Il percorso veneziano, distribuito tra le Corderie e parte delle Artiglierie dell'Arsenale e il Padiglione Italia ai Giardini, nei prestigiosi nomi di Gerhard Richter, Louise Bourgeois, Sol Lewitt, Bruce Nauman, Giovanni Anselmo, Léon Ferrari, i Kabakov, Ellsworth Kelly, John Cage, Jasper Johns, Robert Ryman, Steve McQueen, Elisabeth Murray, Sol Lewitt resta la grande vetrina internazionale dell’arte contemporanea, predisposta ad accogliere non di meno un artista salentino, figlio dell’emigrazione culturale, il quale nell’arco della sua attività non ha perso occasione per dedicare il suo lavoro alle sue origini come sancisce l’omaggio “to my parents”.

Massimo Guastella
Estratto da: “DeGustibus Terrae”, anno 3, numero 4, pp.39-41


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