Approfondimenti » 06/09/2009
Festa patronale e senso di comunità. Di Emanuele Amoruso
Puntualmente ogni anno si festeggia il Santo Patrono. A Brindisi sono due i Patroni: san Teodoro e san Lorenzo.
Già, ogni anno si ripetono questi giorni di “festa”.
Si montano sui corsi principali gli “apparati” (luminarie). San Teodoro “a cavallo”, sotto un baldacchino, occupa per tre giorni il centro della città, ricevendo omaggi floreali. Gli fanno da guardia i Vigili urbani, alternandosi con altre armi.
La città, nell’area più antica che chiamiamo “centro storico”, è come se indossasse un abito della festa: la città è in festa, la città è in artificio.
Si rompe, come era anche nella tradizione del carnevale sino a qualche anno addietro, la routine dei luoghi fisici, ma soprattutto dei comportamenti.
E’ ancora così? Si può ancora dire che la “comunità” si stringe intorno ai Santi Patroni e ritrova quel legame “tradizionale” fatto di vicinanza, solidarietà, identificazione con un luogo ma soprattutto sente di appartenere ad una “comunità i destino” in quanto corpo collettivo che insieme opera ed agisce anche attraverso la “protezione” dei Santi?
Due elementi, ovviamente interconnessi, hanno mutato le condizioni culturali, e quindi di fatto comportamentali, della “scena”: il progressivo disgregarsi degli elementi costitutivi la comunità, comprese le forme della “razionalità di tradizione” con il progressivo affermarsi della “razionalità di scopo” e, soprattutto negli ultimi decenni, conseguentemente al passaggio nella cosiddetta società della comunicazione, l’affermarsi nella mobilitazione pubblica della dimensione dell”evento”, come insieme di corpo, personalità e messaggio.
L’evento “festa patronale”, oltre ai fattori di ciclicità, di atto deliberato di natura culturale che si differenzia quindi dagli eventi naturali, momento di autodefinizione, rito d’appartenenza che postula la partecipazione diretta, rituale di contaminazione tra società e vita quotidiana, metafora e mitizzazione di “ricomposizione” di individuo e società, propone la simultaneità dell’andare oltre il corpo del prodotto, di superarne il valore d’uso ricercandone un valore simbolico.
Qualcuno rammenterà come negli anni ’70 e ’80 si fosse prodotta una sorta di “freddezza” rispetto alle feste patronali. Le luminarie erano “fiacche” e per la “banda” (sempre presente durante i giorni di festa) la cassa armonica era montata su piazze decentrate e secondarie.
L’affermarsi di valori intramondani ed una attenzione maggiore alla soggettività (sento quindi sono) pose in quegli anni in discussione, ed in disuso, molti aspetti, ruoli e funzioni della configurazione sociale, familiare e individuale.
Si parlò di perdita del sacro (disincanto) come progressivo passaggio dalla dimensione tradizionale della comunità all’affermarsi della configurazione formalizzata e razionale della società. La cultura, cioè il modo che abbiamo di dare significati all’esistenza nel tentativo continuo di comprendere la realtà per uscire dal caos e edificare il cosmos, accentuò il suo carattere di secolarizzazione privilegiando i riferimenti ai dati d’esperienza e sperimento piuttosto che a preordinate spiegazioni extramondane.
E’ indubbio che da diversi anni vi sia stato un ritorno di interesse per le feste patronali in genere. Andare a scavare sulla matrice di “bisogno e ritorno del sacro” è arduo; meno arduo sembra ricercare in direzione, in parte accennata, dell’evolversi dei processi culturali della contemporanea postmodernità. Da una parte si può far ricorso al cosiddetto “paradosso del localismo” (quale forma di reazione-autoprotezione ai complessi fenomeni di globalizzazione non solo economica) che orienta verso la riaffermazione di valori e tradizioni territoriali e in qualche modo identitari, anche politicamente. Dall’altra, portato della globalizzazione della dimensione comunicativa, la nuova dimensione del “loisir”, cioè del “tempo per sé” sempre maggiore e autodeterminato dalla disponibile mobilità fisico-virtuale e dalla diffusione di stili di vita non sedentari, che hanno dato vita a vere e proprie “tribu” del consumo culturale, alcune specializzate altre generalizzate.
Come già ricordato il consumo, compreso quello culturale, è esso stesso dimensione esistenziale.
I beni di consumo si trovano nel “mercato” che diviene esso stesso produttore di cultura; questa si crea e si modifica attraverso la comunicazione.
Sembrerebbe che in questo modo, approssimativamente e provvisoriamente, il cerchio si chiuda.
Come si vivono oggi e feste patronali? Alcune sono ancora molto sentite, e finanziate, dagli emigranti; altre, come nel caso di santi protettori demiurghi, con sentita partecipazione anche per la funzione protettrice e d’affidamento vera e propria. Ve ne sono alcune, come Ostuni, capaci di “mettere in scena” una processione (la cavalcata) attraente sul piano del folclore; altre, come Torre Paduli, che rivivono antichi rituali (la scherma di S.Rocco) grazie anche al diffondersi presso le nuove generazioni della “taranta”.
E Brindisi?
Si ripropone la festa/fiera (segnata della globalizzazione) con le bancarelle, le giostre (quest’anno forse è una buona localizzazione?), poca “banda”, gli apparati, qualche “abito della festa”, spumoni, la libera uscita per i più giovani allungata di qualche ora (e con qualche soldo in tasca…per “comparire”), le immancabili noccioline per terra (e gli strascichi sulla pulizia), tante persone d’ogni età nelle strade e sul lungomare, San Lorenzo che va in Cattedrale a trovare San Teodoro, il Palio dell’Arca (recente recupero culturale) e poi…
All’imbrunire la “processione a mare”, le barche che fanno da corona ai Santi, le luci e le sirene, i saluti e gli abbracci, gli auguri e i volti sorridenti, gli sguardi, i baci lanciati dalle labbra con la mano, la gioia dei bambini, i fuochi d’artificio, i fuochi sul mare, le luci sul mare, le scie sul mare, le ondine che frangono: la riproposizione dello sposalizio con il mare.
Di tutto questo incanto è difficile dire: siamo tutti qui. E che duri nel tempo.
Emanuele Amoruso
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