Approfondimenti » 09/07/2011
E’ morto l’arcu ti la chiazza. Di Emanuele Amoruso
E’ morto l’arcu ti la chiazza.
Si avete letto bene. E’ morto l’arco della piazza.
C’è un luogo (anzi c’era) in città che seguendo le coordinate fisiche è uno degli accessi (da Via Ferrante Fornari) alla “piazza mercato dei commestibili vari” ma seguendo le coordinate dell’esperienza e dei pensieri è (era) dove poter leggere i manifesti mortuari.
Quel posto, quei manifesti, quei fogli listati di nero, quella gazzetta della quotidianità (e accesso all’eternità per chi ci crede), quel muro che può (poteva) far commuovere, stupire, angosciare, sollecitare una preghiera, modificare gli impegni giornalieri o del giorno dopo, quel muro che tocca (toccava) in vita i tanti che si soffermano (si soffermavano), quel muro, quell’arco non c’è più.
L’assenza, il niente è il suo necrologio.
E’ un segno dei tempi? Dopo che la stessa piazza mercato, negli ultimi 20 anni, ha perso la centralità della spesa quotidianità dei brindisini (dimezzamento degli abitanti del centro e espansione demografica in altre zone urbane – nuovi modi di fare la spesa ecc.), dopo che le notizie “camminano” più nell’etere e nei fili che con le gambe, dopo che l’indaffaramento e la fretta hanno reso sommaria giustizia al “faccia a faccia” delle relazioni interpersonali, dopo il sovraccumulo di dosi di notizie, dopo la inarrestabile perdita di senso di appartenza alla famiglia estesa della comunità, dopo l’atrofia dei sentimenti a vantaggio dell’immediatismo emotivo, nonostante tutto ciò è rimasta una parte consistente di cittadini (solo di una certa età?), che tengono (tenevano) a quell’andare “all’arco” per meravigliarsi e sapere chi è trapassato. Certo, nonostante la convinzione fatalistica del “prima o poi tocca a tutti”, vi si trova anche conferma, nello stile di Macedonio Fernandez, che il proprio nome ancora non c’è.
La “deriva psicogeografica” (così descritto, dai situazionisti, il percorrere, anche senza meta, parti dello spazio del dimorare quotidiano) nel centro città non è più (non sarà più?) la stessa per molti e quando apprenderanno in ritardo che qualcuno/a “non è più” si sentiranno come di “serie B.”, un po’ essere fuori dal circuito dell’esistenza.
Nei luoghi, nella geografia e toponomastica, noi depositiamo comportamenti, ricordi, allusioni, evocazioni. Vi sono espressioni (come l’arcu ti la chiazza che fa il pari con tutti ama passari porta lecci) che sono cultura, che ci orientano nell’ “uso del mondo”.
Questi luoghi sono visibili e “mappati” nelle carte geografiche dell’esistere: visibili nella cultura del fare “mente locale”.
Sono spazi, luoghi, ambienti, sono “cose” familiari: ci appartengono e vi apparteniamo. Cose dove si è accumulata e sedimentata umanità (Rilke scriveva su Praga: le cose animate, vissute e consapevoli con noi, quando declinano sono ferite mortali).
Anche per questo nei momenti del dopo “calamità” è d’uso la ricostruzione, il più fedele possibile, di molte di queste “cose” interiorizzate e di fatto “radici” d’appartenenza ad una comunità.
Abitare un luogo è farsi abitare dallo stesso. Non si può pensare, come nell’indefinito contemporaneo (tutto è possibile, tutto ha insieme “valore e non valore”) di essere semplicemente “utenti” di una città: nativi, abitanti, di tutte le età, di ogni professione, operai e poeti, e gli altri tutti, fanno la città e son fatti della stessa sostanza (Vittorini si chiedeva nelle Città del mondo: sono le città belle a rendere belli i cittadini o viceversa?).
Sono affezionato, molto, ad un verso di Borges:
la città vive in me come un poema / che non mi è riuscito di fissare in parole.
Difficile trovare le parole, ma a cercarle ci si avvicina alla ricchezza del reale.
La città è tante cose insieme, diverse, molteplici, vecchie e nuove, sorpassate e che annunciano (?) il domani.
La città la percorriamo seguendo “tracce” dell’oggi e della tradizione, ma di fatto siamo portati dall’ “aura” (nel senso di Benjamin) che si è impossessata di noi, e che siamo noi stessi.
La città è la “pianta” della nostra vita, e descrivendo il proprio abitare si descrive se stessi.
Ci sono cose in una città che “sono” la città stessa. Cose frequentate, usate, generate assiduamente nel tempo dalle varie generazioni.
Ci sono cose, e ci sono le persone che a tutto ciò “danno vita”. Nella modernità disincantata accade che la morte è forse derubricata a semplice accidente. Ma la morte non è astratta, non può diventare ignota, nascosta, assente.
Per questo, e per la numerose persone che ho visto “stranite” davanti ad un muro di recente dipintura, facciamo che l’arcu ti la chiazza non scompaia, che sia ancora possibile volgersi ad una cosa che di sicuro non porta buone notizie, ma ci fa sentire solidali e partecipi di una comunità, oltre che vivi.
Emanuele Amoruso
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