Approfondimenti » 31/08/2012
La parrocchia: popolo a servizio del Vangelo. Di Francesco Colizzi
La parrocchia vista dall’esterno, quale stile di vita cristiano?
Attraversando numerose parrocchie diocesane e tante altre un po’ sparse in Italia, nella veste di volontario dell’AIFO, ho constatato che la parrocchia, come ogni organizzazione, non sfugge alle dinamiche potenti del nostro tempo, in cui prevalgono i rapporti labili, liquidi e i legami fragili. Ritengo la parrocchia uno dei presidi più importanti della comunità e sono sinceramente preoccupato dell’affievolirsi del suo ruolo. Mi è stato evidente che essa offre ovunque numerosi servizi ed è attraversata da diverse, e spesso bellissime, attività, a volte aperte all’esterno. E’ stato bello, in alcune occasioni, sentire la parrocchia come un organismo vivente dotato di una membrana semipermeabile, come le cellule umane, in costante comunicazione con l’ambiente più ampio. Tuttavia, piuttosto frequentemente ho percepito l’esistenza di un confine che ben delimita la parrocchia verso l’esterno, tramutando i suoi poteri di rigenerazione in poteri di conservazione. Quella che non sempre ho avvertito, in questi casi, è la meravigliosa spinta inclusiva del Vangelo. Mi è parso a volte di scorgere una difficoltà a rapportarsi decisamente, con radicale apertura evangelica, a temi sensibili che riguardano la dignità e la libertà delle persone: c’è un alone di separazione o di paternalismo, più o meno ampio e marcato, attorno a condizioni come quelle dei conviventi, dei separati, degli omosessuali (il 10% della popolazione), dei malati di mente, dei tossicodipendenti, delle persone con disabilità (circa il 15% della popolazione), dei detenuti, dei migranti, dei non credenti. Poiché tutte le istituzioni umane tendono alla chiusura su se stesse, il rischio che talora si affaccia è quello che la parrocchia assomigli troppo al Tempio di cui Gesù sovvertì le leggi e il funzionamento. Gesù capovolse il flusso della dialettica dentro/fuori del Tempio a favore del fuori, degli esclusi, degli impuri, dei “piccoli”. Parlare delle diverse facce della condizione umana ponendo molteplici distinguo o limiti invalicabili significa per me anteporre la regola alla persona, diventando meno capaci di agire e dunque di amare davvero, cioè di seguire il comandamento cristiano che può fondare una civiltà universale dell’amore in cui tutti ci si possa riconoscere membri. L’universalismo cristiano deve tradursi in universale bisogno dell’altro, pena il perenne rischio di produrre delle dolorose esclusioni. Rammento la mia forte esperienza di quando avevo dodici anni. Frequentavo una parrocchia da alcune settimane e avevo lì un gruppo largo di amici con cui socializzavo e vivevo le attività parrocchiali. Ma ero anche un adolescente che si stava interrogando sul mistero dell’uomo, del mondo, di Dio. Così, quando mi fu posta la richiesta/obbligo di partecipare a una processione indossando una veste apposita, onestamente dissi che non me la sentivo, che non avvertivo i giusti sentimenti per farlo. Dinanzi all’alternativa di farlo comunque o di non partecipare nemmeno alla restante vita parrocchiale, scelsi la libertà e me ne andai. Da tempo mi sono riconciliato con questa vicenda e provo anzi gratitudine per quel sacerdote che di fatto mi spinse a cercare di più, a imparare a stare sul confine tra diverse realtà.
Alcune parrocchie le ho trovate più inclusive perché più spirituali, maggiormente orientate alla missionarietà, alla proiezione nei diversi ambiti della comunità in cui si creano gli esclusi, gli ultimi, al sostegno di gruppi e di azioni nate anche fuori di esse. Per me, la spiritualità è spesso forte proprio in questi luoghi – come in luoghi analoghi del Sud del mondo – , essa non è limitata alle sedi consacrate e anzi si manifesta e si approfondisce spesso negli incontri che avvengono, per dir così, sulla strada. Mi piacerebbero delle parrocchie che, come ha fatto Gesù, narrino il Vangelo nelle strade, nei luoghi di lavoro, nelle occasioni della vita quotidiana, nei singoli incontri e non soltanto nei riti preordinati, nelle processioni e nelle tradizioni. Credo molto nella pedagogia vivente dell’incontro, dove c’è una reciprocità spirituale – magari inapparente – e può avvenire la conversione, come accadde a Giovanni di Bernardone con i lebbrosi. Occorre riconoscersi pienamente come realtà condizionate, come direbbe Aldo Capitini, e favorire tutte quelle libere aggiunte che ogni singola, specifica, peculiare persona può offrire, e che possono spingerci verso la realtà liberata. Detto altrimenti, come farebbe Leonardo Boff, riconoscersi tutti fragili vuol dire anche riconoscersi tutti come cura l’uno per l’altro. Questo vuol dire che le parrocchie dovrebbero sviluppare il coraggio, che a volte è davvero flebile, di aprirsi e di allearsi con tutti coloro i quali credono nei valori della persona come l’ha tratteggiata Paul Ricoeur: “Auspicio di una vita compiuta, con e per gli altri, all’interno di istituzioni giuste”. Allearsi, non solo dialogare, con tutti coloro che vivono la libertà come responsabilità sociale, anche se credono di non credere – come me - imparando a sperare assieme e cercando di costruire l’eutopia, il buon luogo di cui parlava don Tonino Bello.
Il dialogo con i “lontani”, tra credenti e non credenti.
Avendo meditato a lungo su questo tema, devo dire che sento consumate molte parole utilizzate ormai da decenni (penso in particolare alla feconda stagione del dialogo tra cattolici e comunisti simboleggiata negli anni Sessanta dal carteggio tra monsignor Bettazzi ed Enrico Berlinguer). Cosa vuol dire dialogo oggi? E chi sono veramente i “lontani”? E ancora, ci sono credenti irrigiditi in formule vuote e in atteggiamenti privi di amore verso il prossimo, e vi sono non credenti aperti, alla ricerca della verità, capaci di farsi prossimo. E se i lontani dalla parrocchia o dalla Chiesa non fossero poi sempre così lontani dal messaggio evangelico? E se i non credenti non fossero poi così increduli, ma custodissero una pudica, ma non per questo debole, spiritualità? Come si fa a saperlo? Frequentando luoghi disparati del mondo e incontrando persone impegnate di fedi diverse, dai missionari cristiani ai buddhisti ai volontari musulmani fino agli induisti e ai giovani cooperanti sincretici o non credenti, mi sento di affermare che occorre non solo il dialogo ma l’apertura costante al reciproco ascolto profondo (come lo chiama il monaco buddhista vietnamita Thich Nhat Hanh, che propone lo stile dell’essere pace) e la disponibilità vera al rischio dell’incontro. Il dialogo interreligioso è essenziale se, come propone il priore di Bose Enzo Bianchi, sa diventare ascolto profondo delle rispettive storie sacre e se converge sull’opzione soteriologica, dell’impegno per il benessere dei poveri e per la giustizia sociale. A Mumbai ho visitato quattro anni fa l ‘ashram di padre Torriani, un missionario del PIME che da quarantanni vive in India al servizio dei lebbrosi e di tante altre persone, in genere musulmane, e che afferma di aver convertito in tanti anni soltanto se stesso. Su un muro dell’ashram è annunciato a grandi lettere che la pietra scartata dai costruttori è diventata pietra d’angolo, proprio il tema della Prima lettera di Pietro oggetto dell’odierna lectio divina. In questa sorta di comunità di base e di condivisione, Padre Carlo ha costruito anche una piccola cappella della preghiera condivisa, che ha chiamato Swarga Dwar, la Porta del Cielo, la porta che la morte ci fa attraversare. Qui, su una colonna, vi sono tutti i simboli delle diverse religioni e perfino la falce e martello che ha ispirato grandi lotte per il riconoscimento della dignità e dei diritti dei lavoratori nel mondo. Qui si prega ogni giorno con una preghiera diversa, tratta dal grande scrigno delle religioni e ispirata alla regola d’oro. Ecco, lì ho intravisto la concreta possibilità di operare per costruire una etica universale, attraverso la condivisione dei diversi aspetti della condizione umana e delle grandi speranze che essa contiene ed alimenta. E’ un cammino di filocalìa, di amore della bellezza, come è stato quello di Gesù prima della croce. Si può collaborare su tutto ciò che riguarda la persona umana, sui suoi bisogni concreti ma anche su quelli simbolici e sul grande bisogno di far emergere la spiritualità di ognuno, il sentimento di appartenenza ad un potere più grande. Se, come sosteneva Tolstòj, il Regno di Dio è dentro di noi e tra di noi, il messaggio radicale del Vangelo è di risvegliarsi a tale realtà, di convertirsi a vicenda all’amore, a quell’amore politico nonviolento che può incarnare il nuovo umanesimo del nostro tempo e l’etica universale per ogni essere umano, per chi crede in una religione e per chi crede di non credere. Lo ha ben descritto proprio Leone Tolstòj in Resurrezione, attraverso la bruciante riflessione del conte Nechljùdov: “ Tutto sta in questo: gli uomini ritengono esservi delle situazioni in cui è lecito trattare il prossimo senza amore, ma queste situazioni non esistono. (…) Se si giunge ad ammettere, e sia pure per un’ora sola e per qualche caso eccezionale, che una cosa al mondo è più importante dell’amore per il prossimo, non esiste delitto che non si possa compiere contro gli uomini pur ritenendosene innocenti. (…) puoi occuparti degli uomini proficuamente e senza danno soltanto se li ami”. Non ci si può consegnare al pessimismo. Non è come sembra: sono tante le persone che vogliono opporsi a quest’epoca di nichilismo strisciante, di indifferenza valoriale, di grave turbamento dei cuori e di ingiustizia crescente. Tutte queste persone, molte delle quali “lontane” o “non credenti”, sono come il Rambert de La peste di Camus che, vergognandosi di essere felice da solo, decide di non raggiungere la sua fidanzata ma di restare ad Orano a combattere la peste assieme a tutti coloro i quali cercavano di arginarla. Tutte queste persone cercano l’altro e la Parrocchia dovrebbe incrociarle, incontrarle, sperare assieme a loro e operare assieme a loro. Se posso parlare a nome di costoro, mi piace farlo con le parole di Emmanuel Mounier: “ Non lavoriamo per passatempo, né per un interesse, né per un piacere, ma tesi verso la verità e per la comunità universale, dalla quale nessuno è escluso, né alcun aspetto della verità, tesi verso Dio, anche se per molti di noi il Dio sconosciuto”.
Francesco Colizzi
|