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Approfondimenti: La magia delle pietre pugliesi. Di Guido Giampietro



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Approfondimenti » 10/11/2012

La magia delle pietre pugliesi. Di Guido Giampietro

“Non ho altro da cercare al mondo che quello che ho già trovato”… Così scriveva Goethe all’amica Charlotte von Stein riandando con la mente al suo Grand Tour in Italia, ma anche ad un amore che lei rifiutava di ricambiare. Più tardi, sull’onda emotiva dei ricordi, così si confessa: “Conosci tu la terra dove il limone fiorisce,/ dove le arance d’oro splendono tra le foglie scure,/ dal cielo azzurro spira un mito vento,/ il mirto immoto resta e alto si erge l’alloro,/ la conosci tu, forse?/ Laggiù, laggiù voglio con te fuggire …”.
Il viaggio di Goethe attraverso la penisola si era concluso in Sicilia, ignorando del tutto il litorale adriatico. Sì, è vero, cercava le vestigia greco-romane, il mito di Apollo, un’Italia arcadica e rurale, quasi ancora vibrante di paganesimo, cercava soprattutto se stesso. Ma tutto ciò avrebbe potuto trovarlo anche nei luoghi della Magna Grecia e nel resto dell’Italia. Così come avrebbe trovato i limoni, le arance e i cieli azzurri. In Puglia, oltre a tutto questo, sarebbe stato sicuramente ammaliato dai colori delle pietre e dalle fogge straordinarie che, dagli albori della civiltà, gli uomini di questa terra hanno dato loro. In tal modo i versi dedicati all’amica avrebbero narrato altre storie. Le storie, parimenti fascinose, delle pietre pugliesi …

Purtroppo, all’epoca del suo viaggio (1786 – 1788), non erano stati ancora portati alla luce i più importanti tra gli ipogei, gli edifici scavati nella roccia calcarea, di chiara impostazione greca e macedone, ma segnati anche da influssi etruschi. Spesso decorati con intonaci colorati per celebrare i suggestivi riti legati ai misteri della vita e della morte e, più tardi, impiegati come sepolcri. Quegli edifici li aveva costruiti un misterioso popolo di origine Illirica che, agli inizi della media Età del Bronzo, abitò nella Daunia, vasto territorio racchiuso dal bacino del fiume Fortore e dal basso corso dell’Ofanto. Dunque Goethe, durante il Grand Tour, non avrebbe potuto bearsi dello splendore delle collane in ambra e pasta vitrea appartenute alla famosa “Signora delle Ambre” e rinvenute nell’Ipogeo dei Bronzi di Trinitapoli, immerso in uno scenario reso magico dal verde celadon della vegetazione e dalle acque policrome delle Saline. Né avrebbe potuto gioire alla vista dei preziosi vasi apuli a figure rosse trovati nell’Ipogeo Lagrasta, nell’agro di Canosa.
In compenso avrebbe potuto scoprire le specchie nate come fari neolitici utilizzati durante le battute di caccia e poi evolutesi in veri e propri sistemi di comunicazione. E i menhir, pietrefitte alte da 80 cm a svariati metri (a Martano, nel Salento, c’è quello più alto d’Italia, superando i cinque metri). Per questi megaliti monolitici si parla di osservatori astronomici che avrebbero avuto lo scopo di fungere da aste di meridiane, necessarie per registrare movimenti, tempi e fasi astrali e verificare cicli propizi per le iniziative degli uomini.

I dolmen (tra i meglio conservati quello di Bisceglie), invece, polilitici e assemblati a portale, avrebbero avuto le funzioni di uso funerario o di altare sacrificale ma anche di rito propiziatorio di fertilità. Qualunque sia la loro origine c’è da dire che il paesaggio pugliese, con la presenza di questi monumenti, acquista un fascino ancora maggiore. Tra l’azzurro del cielo e le verdi distese di mandorli e ulivi, essi sono oggi muti testimoni di un antico popolo che sentì forte il culto dei propri antenati e del dio Sole.
Ma il nostro Goethe avrebbe potuto ammirare anche i muretti a secco, le prime costruzioni rurali di questo territorio. Assoggettare la terra ha comportato da sempre una dura fatica per i contadini. Scriveva Tommaso Fiore in “Un popolo di formiche”: “Mi chiederai come ha fatto questa gente a scavare ed allineare tanta pietra. Io penso che la cosa avrebbe spaventato un popolo di giganti.
Questa è la Murgia più aspra e più sassosa; per ridurla a coltivazione facendo le terrazze (…) non ci voleva meno della laboriosità di un popolo di formiche”. E i sassi ottenuti da questa operazione si ammucchiarono senza ordine lungo i margini del campo. Poi il mucchio di pietre informe prese un aspetto definito, si sollevò dal terreno, si snellì e assunse caratteristiche e funzioni a seconda dello scopo a cui fu destinato. Si sviluppò così un’arte che, da padre in figlio, venne tramandata attraverso i secoli: quella del “paritaru”, dell’uomo che costruisce muri e pareti. Ci sono, in Puglia, muri di tutte le età e specie: da quelli messapici, con la loro perfetta struttura a blocchi squadrati poggiati orizzontalmente, a quelli “patrizi” (cingevano le tenute dei nobili, le masserie fortificate) eretti con maestria e attraversati da feritoie (“chiaviche”) per permettere il deflusso dell’acqua piovana, a quelli “plebei”, a delimitare le microproprietà dei contadini. E poi ci sono le “pajare” (costruzioni trulliformi), la testimonianza più significativa di quando la campagna pugliese pullulava di contadini operosi.

Ma quello che Goethe ha irrimediabilmente perso è stata l’occasione di fare la conoscenza con il càrparo, il top della pietra pugliese. Sia che si tratti della pietra mazzara, tenacissima e per ciò stesso difficilmente lavorabile con l’utensile tradizionale; o della pietra càrpara, gialla, tenace, lavorabile solo con ascia e scalpello (la più pregiata si trova nelle cave di Alezio e Gallipoli ed è molto ricercata per lavorazioni e oggettistica artistica); o della pietra tenera (tufo), bianca, facilmente lavorabile (le cave più importanti sono quelle ipogee di Cutrofiano e quelle di Fracagnano, nel tarantino); o della pietra leccese, formata da granuli finissimi ben concentrati e meritoria artefice del decantato decoro del barocco leccese.
Il viaggio di Goethe, se avesse previsto la variante pugliese, sarebbe certamente durato di più dei due anni trascorsi a girovagare per l’Italia prima del rientro nella fredda corte di Weimer. Il poeta avrebbe così personalmente constatato come questa pietra, oltre ad adattarsi ad ogni capriccio architettonico o scultoreo a motivo della sua tenerezza, cangia continuamente di colore a seconda di quello del cielo: edifici pubblici e privati, manieri e cattedrali assumono, nel corso della giornata, colorazioni pastello distribuite su un’ampia scala cromatica che dal bruno, passando attraverso le varie sfumature del rosato, giungono fino al rosso acceso allorché la pietra si mette a duettare con i raggi d’un sole prossimo al tramonto. Proprio quello che si può riscontrare ammirando il Castello Alfonsino di Brindisi ˗ detto anche il Castello Rosso ˗ un’antica fortezza del periodo aragonese che sembra tolta ˗ a opera di un Ciclope un po’ burlone ˗ dal paese delle fate e lasciata poi cadere nel bel mezzo d’uno specchio d’acqua d’un blu intenso.
E di tufo calcareo, estratto dalle cave nelle vicinanze della città, è un altro insigne monumento dell’architettura romanica pugliese: la Cattedrale di Trani che pure si specchia vanitosa nelle tranquille acque del porto. In questo caso la pietra (o marmo) tranese è caratterizzata da un colore roseo chiarissimo, quasi bianco, che lascia il visitatore/pellegrino basito per quanto è bello e suggestivo. E tutto ciò a prescindere dai pregi artistici d’una costruzione contraddistinta da un imponente campanile “forato” alla base da un ardito arco a sesto acuto e impreziosito da un portale romanico accuratamente ornato e dalla chiara influenza architettonica araba.
E, ancora, ci sono le chianche, simili, per forma e durezza, ai basolati delle vie Appia e Traiana, che videro transitare gli eserciti di Roma prima d’imbarcarsi per l’Oriente. Nei tempi più vicini a noi le chianche ˗ diventate oramai più appetibili delle maioliche napoletane del 1700 ˗ sono state impiegate nella pavimentazione, oltre che stradale, delle antiche masserie e dei trulli. In contrapposizione ad esse, invece, c’è la tenera pietra di Apricena, forse la stessa con cui, un milione e mezzo di anni fa, in un territorio abitato da elefanti e tigri con le zanne a sciabola, ebbero a che fare i primi ominidi, vale a dire quell’“homo antecessor”, com’è stato definito quest’antenato apparso nei luoghi di Apricena prima dell’“homo sapiens”. Oggigiorno con quella stessa pietra si lastricano strade e piazzette dei centri storici pugliesi, rendendole accoglienti al pari dei salotti di casa.

In conclusione, a motivo di un Grand Tour che ha ignorato la Puglia, appare un po’ limitativo l’incipit “Et in Arcadia ego” con cui Goethe rivendica il suo giro per l’Arcadia: “Anch’io sono stato là. Anch’io vi ho vissuto” sembra sentirlo gridare. Probabilmente sarebbe riuscito meglio nell’intento di cambiare se stesso “fino al midollo” se quel giro l’avesse fatto da queste parti e, tra l’altro, avesse preso diretta conoscenza delle pietre pugliesi …

Guido Giampietro


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