Approfondimenti » 02/02/2013
Il ritorno ai campi. Di Guido Giampietro
Le notizie riportate dagli anoressici giornali agostani possono apparire contrastanti, ma a una attenta lettura fanno intuire che sul versante dell’agricoltura pugliese sia in atto un’inversione di tendenza. Infatti nell’Alto Tavoliere i braccianti locali sono tornati a raccogliere l’oro rosso accanto ai bulgari, rumeni e polacchi che, a loro volta, hanno rimpiazzato i migranti provenienti dai paesi dell’Africa subsahariana (per la cronaca gli italiani – sembra senza l’“assistenza” dei caporali – lavorano a giornata mentre i migranti a cottimo).
Nel sud del Salento, invece, i migranti stagionali – solo extracomunitari – lavorano nei campi di angurie e di pomodori ancora all’ombra d’un caporalato contro il quale si è opposta una mobilitazione che ha avuto nello studente camerunense Ivan il leader più attivo (anche se il giovane negli ultimi tempi è “sparito” da Nardò, probabilmente a motivo delle minacce rivoltegli).
Dunque, pure nell’amara constatazione d’un caporalato ancora duro a morire, la notizia confortante riguarda il ritorno ai campi della gente nostrana. Anche dei giovani. Un ritorno che se al momento è limitato alla raccolta dei frutti, in prospettiva potrebbe trasformarsi in un ritorno alla coltivazione vera e propria.
Ma con una recessione mondiale alle porte (checché ne dicano la Banca Centrale Europea e i nostri politicanti) ha senso gioire per un ritorno ai campi? Ce l’ha, eccome! Forse i ragazzi si stanno rendendo conto che al lavoro umiliante in un call center (amaramente ridicolizzato dalla brava Sabrina Ferilli in Tutta la vita davanti di Virzì) o a quello alienante del volantinaggio o a tutte le altre vergognose opportunità offerte dal precariato e dalla sottoccupazione anche in luoghi lontani da Brindisi, è da preferire il lavoro nei nostri campi. Un lavoro mille volte più pesante ma, scusate la contraddizione in termini, più gratificante.
Mi è tornata alla mente una riflessione di Susanna Tamaro sull’etimologia del termine “cultura”, nella doppia accezione di coltivazione della terra e della mente. Cultura, infatti, deriverebbe dalla radice indoeuropea kwel il cui significato è quello di produrre un movimento circolare. Da kwel sarebbe successivamente derivato il colěre, il coltivare dei latini.
Ai primordi dell’umanità l’agricoltura, intesa come attività stanziale, era sconosciuta. Il nomadismo tribale, al posto dell’agricoltura, praticava la caccia. Quegli uomini cacciavano, mangiavano e, non potendo conservare il cibo, tornavano a cacciare. Solo molto più tardi fece la comparsa il concetto del coltivare che aveva in sé quello del movimento circolare legato all’alternarsi delle stagioni. E l’acquisizione dell’idea di ciclicità del tempo portò, di riflesso, quella del “movimento circolare” delle culture. Gli uomini avevano finalmente compreso che non dovevano più spostarsi da un luogo all’altro per procacciarsi il cibo. Dovevano lavorare – questo, sì –, in compenso la terra avrebbe trasformato il sudore nella linfa destinata a renderla fertile.
Ma la coltivazione dei campi comporta anche un continuo rimando al passato, una particolare attenzione al presente e una concreta visione del futuro. Questo fanno i contadini. Questo il segreto che, unito alla fatica fisica e all’accettazione del rischio, porta al miracolo della crescita dei frutti. Ed è così che dall’idea di coltivare i campi si è passati a quella di coltivare il proprio spirito. Anche la mente, sostenuta dalla curiosità e stuzzicata dal dubbio che la costringe a crescere, si avvale delle esperienze del passato, le confronta criticamente con quelle del presente e infine le utilizza nel futuro come semi destinati a produrre altri frutti. Quelli dell’animo.
Purtroppo il circolo virtuoso della “cultura” dei campi s’è interrotto nel momento in cui, attirati dal canto melodioso di sirene camuffate da alte ciminiere, i nostri contadini e i loro figli sono emigrati al Nord decretando, di fatto, la lenta agonia dell’agricoltura. E nei luoghi dove la terra, testardamente, continua a produrre, i frutti – per mancanza di manodopera o per le astruse leggi imposte da una comunità europea che si ostina a considerare alla stessa stregua i paesi nordici e quelli mediterranei – rimangono desolatamente a marcire sugli alberi o a essere ridotti in poltiglia dai rulli schiacciasassi. E intanto nel Corno d’Africa grandi e bambini continuano a morire di fame!
Oramai abbiamo la consapevolezza che si è rotto il patto che l’uomo aveva stretto con la sua natura e con la natura che lo circonda. Il che equivale a dire che non si ama più la vita e non si crede più in essa, visto che non si coltiva solo nutrimento ma anche l’idea d’un futuro in cui le generazioni si susseguono. Senza parlare che “una persona che coltiva e che si coltiva – ricorda la Tamaro – non è mai manipolabile ed è sempre lontana dalle ottuse tempeste dei fanatismi”.
Ecco perché la notizia di un timido ritorno nei campi da parte della nostra gente ha riacceso in me la speranza. Probabilmente mi sbaglio. Forse quel ritorno è motivato unicamente dalla volontà di non consegnare al precariato, oltre ai corpi, anche i sogni… O dalla constatazione che il Progetto di trovare al Nord o all’estero, se non proprio la felicità, quanto meno un minimo di benessere sta miseramente naufragando considerati i mesti rientri dei giovani che, novelli figliol prodighi, tornano a chiedere ospitalità ai loro vecchi.
O forse no! Magari è la punta dell’iceberg d’un movimento più vasto che, come la Cooperativa sociale “Terre di Puglia – Libera Terra”, vede nel ritorno ai campi anche una costruttiva esperienza di liberazione dall’influenza della criminalità organizzata, oltre che un’opportunità di riscatto per un’intera comunità. Qualunque siano le motivazioni una cosa è certa: questa inversione di tendenza, per quanto timida, è una benedizione.
“Ogni filare di viti o ulivi è la biografia di un nonno o bisnonno” scriveva Indro Montanelli. Sfregiare una collina dissodata con la zappa dai nostri avi, abbandonare alle sterpi un vigneto d’antico lignaggio, barattare per trenta miseri denari ulivi secolari d’una dolcezza disarmante, conficcare enormi pale eoliche nel bel mezzo del nostro paesaggio o nasconderlo alla vista sotto la vergogna dei moderni specchi ustori etichettati come impianti fotovoltaici, non è solo uno scempio estetico. È un insulto ai nostri nonni che su quelle terre si sono spaccata la schiena e ai nostri figli ai quali non lasceremo ciò che abbiamo immeritatamente ereditato.
Guido Giampietro
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