Approfondimenti » 11/07/2013
Decreto "del fare": un’altra storia semplice. Di Stefano Palmisano
Chi l’ha detto che per riformare la Costituzione è necessario seguire il lungo, pedante ed
antieconomico iter previsto dall’art. 138 della stessa Carta?
Ma perché mai il governo delle “larghe intese” si dovrebbe far impigliare nella pania della
“doppia lettura”, della maggioranza qualificata, del rischio di referendum (che poi, com’è successo
nel 2006, finisce pure che l’elettorato antipolitico e divisivo non colga la grandezza dell’opera
riformatrice dei nuovi padri e soprattutto padrini costituenti della nazione e bocci “la grande
riforma”) e da tutti gli altri analoghi lacci e lacciuoli ideati da quei noti sfaccendati che redassero la
Carta del 1948?
Se non si ammirano all’opera su questioni così stringenti e prioritarie nella coscienza civile
del paese, come la riforma, “di fatto” o di diritto, della Costituzione, a che serviranno mai queste
agognatissime larghe intese, per raggiungere le quali si è imposta, dai colli più ermi ed erti,
un’interpretazione vagamente “minimalistica” delle elezioni politiche e, soprattutto, delle
posizioni ufficiali dei “contendenti” (si fa per dire) in campagna elettorale?
Dov’è scritto, insomma, che per avere per una Costituzione finalmente degna delle classi
dirigenti, a partire da quelle immortalate nel citato governo, di questo paese sempre riottoso al
nuovo, bisogni sprecare tanto tempo e tante risorse, impedendo alle citate, nobili, élites di fare di
questa nazione, finalmente, una nazione avanzata ed efficiente, tipo, per dire, l’Egitto e la Turchia?
Qualche ingenuo, o qualche irredimibile tardo-soviettista, potrebbe obiettare: è scritto
proprio nella Costituzione, all’art. 138, per l’appunto, che disciplina dettagliamente il meccanismo
di revisione costituzionale.
Ma sarebbe ben misera e ideologica obiezione: è del tutto ovvio, infatti, che la Costituzione
è in solare conflitto d’interessi in ordine alle possibilità e alle procedure della sua riforma.
Si sa come sono fatte le Costituzioni: sono conservatrici, tendono ad autoperpetuarsi.
Mica sono dinamiche, democratiche e soprattutto fondate sul merito come le classi
dirigenti, specie quelle di questo paese; come attesta, mirabile paradigma, la stessa composizione
del citato esecutivo della Repubblica!
Per fortuna, il legislatore, sia quello parlamentare sia, ancor più, quello governativo per
decreto - per le ovvie, sistematiche, ragioni di “necessità e urgenza” (con l’indefettibile sostegno
successivo delle apposite Camere) - fedele nei secoli agli “ottimati” socio – economici di questo
paese assai più che alla Carta medesima, a volte si produce in perspicue intuizioni legislative per
smuovere un po’ le acque della morta gora costituzionale e soprattutto “rilanciare l’economia”, ça
va sans dire.
Questo è quello che il provvidenziale legislatore di governo, guidato dal nipote di suo zio,
sta provando a fare con il c.d. “decreto del fare”, o almeno con taluna delle più pregiate perle
normative contenute nel testo legislativo “necessario e urgente” in questione che fanno strame, in
un solo colpo, di masse di principi costituzionali.
E’ il caso di una norma, contenuta nel titolo dedicato, neanche a dirlo, alle
“semplificazioni”, e più precisamente alle “misure per la semplificazione amministrativa”, che
riformula un articolo del Testo unico ambientale, il 243, in materia di “gestione delle acque
sotterranee emunte”, in questi termini: “Nei casi in cui le acque di falda contaminate determinano
una situazione di rischio sanitario, oltre all'eliminazione della fonte di contaminazione ove possibile
ed economicamente sostenibile, devono essere adottate misure di attenuazione della diffusione
della contaminazione [….]”
Orbene, l’incidentale sottolineato, nella sua benemerita tensione “semplificatrice”,
d'emblée abbatte come birilli una serie di disposizioni costituzionali, nell’ordine:
1) I’art. 2, che statuisce il principio “personalistico” della Costituzione, ossia quello per il
quale “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come
singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede
l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.” In
pratica, afferma la Carta, la persona e i suoi diritti inviolabili vengono prima di tutto il
resto; anche prima dei bilanci delle corporations che contaminano le acque di falda. E
tra quei diritti inviolabili non pare forzatura interpretativa di conio bolscevico rinvenire
anche quello alla salute.
2) l’art. 9, che prevede la tutela del paesaggio, e che, insieme all’art. 32, è stato ritenuto la
base costituzionale del cosiddetto “diritto all’ambiente salubre” (“L'ambiente é
protetto come elemento determinativo della qualità della vita. La sua protezione non
persegue astratte finalità naturalistiche o estetizzanti, ma esprime l'esigenza di un
habitat naturale nel quale l'uomo vive ed agisce e che é necessario alla collettività e,
per essa, ai cittadini, secondo valori largamente sentiti; é imposta anzitutto da precetti
costituzionali (artt. 9 e 32 Cost.), per cui esso assurge a valore primario ed assoluto.”,
Corte Cost. n. 641\1987).
3) l’art. 41, c. 2, per cui “L’iniziativa economica privata [….] Non può svolgersi in contrasto
con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità
umana.” Quanto possa esser compatibile con “l’utilità sociale, la sicurezza, la libertà e
la dignità umana” il lasciare tranquillamente in essere la “fonte di contaminazione”
delle acque di una collettività lo si lascia valutare a chi legge.
4) l’art. 42, c. 2, per il quale “La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge,
che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la
funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.”
5) e infine, dulcis in fundo, l’art. 32, c. 1, che sancisce che “La Repubblica tutela la salute
come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività”.
Su quest’ultimo precetto costituzionale e sul suo rapporto non proprio armonioso con la
mirabile norma del “decreto del fare” in esame, pare francamente superflua ogni glossa.
Solo una nota di colore, utile a far brillare della sua stessa luce la squisita sensibilità
costituzionale del “legislatore del fare” su una questione della levatura della tutela della salute
pubblica: nel testo di legge sopra riportato non si prende in considerazione un generico “rischio
ambientale” (che pure, come dovrebbe esser ormai acquisito, “qualche effetto” sulla salute
pubblica di solito lo comporta), si fa, invece, espresso riferimento, con meritoria sincerità, ad una
“situazione di rischio sanitario”.
In pratica, chi ha redatto questo autentico cameo legislativo in sede governativa e chi lo
approverà in ambito parlamentare non potrà neanche intorbidare le acque (per rimanere in tema)
con i consueti approcci di basso profilo, per non dire apertamente mistificatori, sulla residualità
delle questioni ambientali e sulla loro recessività di fronte alle sacre istanze dell’economia e della
crescita; chi ha ideato questa norma e chi la voterà sa e saprà benissimo che essa incide
direttamente su un “rischio sanitario”, ossia sulla salute e sulla malattia delle persone che vivono
in un dato territorio. Sulla loro vita e sulla loro morte.
E quel legislatore, quello governativo e, di risulta, quello parlamentare, non potranno
neanche accampare l’altrettanto bolso alibi per cui “ce lo chiede l’Europa”.
Perché se c’è una cosa che chiede l’Europa è che “chi inquina paghi” (art. 191 Trattato di
Lisbona).
Ai tempi in cui regnava incontrastato l’organizzatore di cene eleganti (tempi remoti, com’è
noto; oggi è cambiato tutto), sulla “riforma” dell’art. 41, c . 2, della Carta, sulla rimozione, o
comunque sul sostanziale ridimensionamento, della clausola di salvaguardia lì contenuta
dell’utilità e della sicurezza sociale si faceva solo “ammuina”: proclami chiassosi che sortivano
l’ovvio effetto di svegliare per breve tempo anche i più narcolessici tra gli studiosi e “l’opinione
pubblica”, con la conseguenza che si faceva tanto rumore per nulla.
Oggi non è più così.
Oggi c’è il governo del fare.
E il governo fa.
In maniera schiva e riservata, clandestina quasi, ma, dal suo punto di vista, assai efficiente.
In nome della semplificazione, della semplicità.
Si narra che il teologo riformatore boemo Jan Hus, antesignano per molti versi di Martin
Lutero, vedendo una vecchietta che, per stoltezza, aggiungeva legna al rogo sul quale egli stava
per essere arso, proferì la nota espressione “o sancta simplicitas!” (o santa semplicità!).
Gli uomini e le donne amanti della Costituzione e sensibili alla tutela dell’ambiente e della
salute pubblica devono esser assai vigili in questo periodo, anche e soprattutto nei confronti di parole d’ordine in sé difficilmente contestabili, al punto da diventare veri e propri mantra politico
– culturali, come, per l’appunto, quella della “semplificazione”.
In caso contrario, si rischia di lasciar alimentare, e non solo da zelanti vecchiette, il rogo sul
quale brucerà quel che resta dei diritti fondamentali esistenti in questo paese.
Stefano Palmisano
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