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Approfondimenti: La pietra di San Bernardino. Di Guido Giampietro



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Approfondimenti » 10/08/2013

La pietra di San Bernardino. Di Guido Giampietro

Man mano che il paese ˗ un brillantino incastonato nello smeraldo d’una rigogliosa vegetazione ˗ s’andava avvicinando spariva dalla mia mente il blu dell’Adriatico verso il quale l’auto stava correndo prima che effettuassi la deviazione per Cassino.
Pochi minuti dopo mi sono ritrovato nella piazzetta-bomboniera di San Donato Val di Comino.
Di rientro dalle vacanze mi era stata offerta ospitalità in quel lembo del Lazio dove la Ciociaria va a stringere la mano al Parco Nazionale d’Abruzzo. E l’avevo accettata.
Un caffè e subito dopo, arrancando dietro l’amica improvvisatasi guida, un inerpicarsi su per scalinatelle che danno la sensazione di salire fino alle nuvole. Poi le benefiche soste sotto gli “spuort”, i passaggi coperti dei vicoli che, al contrario, sembrano condurre al centro della terra.
Un aggirarsi tra case mute, ma inghirlandate di fiori quasi ad aspettare il passaggio di spose invisibili. E chiese che combattono con la santa frescura il caldo infernale del primo di agosto.

Improvvisamente l’incontro con un masso segnato dal tempo. “Cos’è?”, chiedo.
“Fin dal secolo XVI – mi viene spiegato – era data facoltà a ogni cittadino che vantasse un credito di provare a recuperarlo tramite la “Pitt’ma”. Vale a dire un tizio (l’equivalente di un impiegato di Equitalia!) incaricato di tormentare il debitore fino a convincerlo a restituire il dovuto. Nel caso d’insuccesso di tale procedura l’insolvente veniva fatto accomodare per alcune ore (a seconda della consistenza della somma) sulla pietra, esponendolo in tale maniera alla pubblica gogna. La pietra, infatti, viene nominata anche pietra dello scandalo”.

E San Bernardino che c’entrava con questa storia?
Bernardino era un francescano, in realtà nemmeno “santo” ma semplicemente “beato”. Uno che però dedicò tutta la vita a difendere i deboli dall’usura (oltre a combattere gli ebrei) e si ritenne perciò opportuno intestargli quel curioso scranno della vergogna. In un tempo in cui la vergogna aveva un peso nella società!
La storia di quel masso, trattato dai sandonatesi alla stregua dell’antica Torre d’avvistamento e degli altri monumenti cittadini, mi ha tenuto compagnia nel viaggio di ritorno insieme all’ascolto dei bollettini di guerra di Isoradio sugli incidenti automobilistici. Ma mi ha anche fatto venire a mente le “pietre” riportate alla luce nel corso dei lavori di rifacimento del lungomare brindisino.

Prima di partire per le vacanze tutto lasciava pensare che l’area di scavo antistante la Capitaneria di Porto ˗ presumibile sede della Porta Reale e del più antico porto romano ˗ sarebbe diventata un piccolo parco archeologico a beneficio di cittadini e turisti.
Questo era stato chiesto a gran voce da chi ha a cuore la storia di Brindisi subito dopo la troppo frettolosa “copertura” dei primi reperti (giudicati archeologicamente poco significativi) rinvenuti di fronte al palazzo Montenegro.
E questo era stato promesso dall’Amministrazione comunale, mai come in questo caso così compatta nella decisione!
A sostegno di una positiva soluzione della querelle c’erano stati, negli ultimi tempi, i qualificati interventi tecnici degli Ordini professionali competenti in materia e quello altrettanto vibrante dell’Associazione Legambiente di Brindisi.

Forte di questi rassicuranti antefatti la mattina successiva al mio rientro mi sono recato al porto. Un po’ per riprendere confidenza con il blu del mare e un po’ per constatare lo stato dei lavori del nascituro parco.
E invece, allo stesso modo con cui Daniele da Volterra aveva nascosto con le braghe le “vergogne” del Giudizio di Michelangelo, qui, con l’ennesima gettata di cemento, avevano coperto gl’incolpevoli resti del nostro passato.

Ma come? A nulla erano servite le argomentazioni di Legambiente? Per il Circolo “Tonino Di Giulio”, infatti, sia il Comune che la Soprintendenza non avevano alibi per non conservare tale patrimonio storico (se proprio non si vuole ammettere la sua valenza artistica).
“La peggiore delle soluzioni possibili nell’area di scavo, dal punto di vista culturale ed economico ˗ avevano fatto presente gli amici di Legambiente ˗ sarebbe quella di rimuovere i reperti spostandoli altrove, semmai ponendo al di sopra del sito da richiudere, dei calchi... Tale soluzione testimonierebbe una vera e propria insensibilità, vista la realizzazione di falsi artistici che, oltre ad essere sgraditi, costituirebbero un ulteriore aggravio dei costi…”.
Per tutta risposta, dal Palazzo di Città era stato sollevato il problema dell’acqua marina che lambiva i reperti.
Ma come?, dico io che tecnico non sono, ma in compenso ho occhi e orecchi per vedere quello che succede nel mondo. C’è un tunnel ferroviario-stradale che passa sotto la Manica, ci sono grattacieli più alti delle colline delle Murge, ponti lunghi chilometri, rifugi di acciaio e cristallo costruiti a pochi metri dalla vetta del monte Bianco, c’è il sistema Mose a Venezia e il contestato progetto TAV… e qui si parla d’impedimenti per un po’ d’acqua stagnante?!
“Un assurdo tecnico” così era stata definita la difficoltà esposta dal Comune. E per dare forza alla propria tesi Legambiente aveva ribattuto che, per convincersi del contrario, bastava recarsi a visitare il parco archeologico delle navi romane del porto di Pisa (ben 9 metri al di sotto del piano di campagna e dell’Arno), quelle di Fiumicino, ecc.
“Se per un attimo pensiamo che al tempo dei romani il livello del mare era più basso, rispetto all’attuale, di circa 3 m. è anche ipotizzabile che al di sotto delle mura lignee e dei massi arenacei ritrovati, vi sia un prolungamento degli stessi reperti, fino ai possibili riscontri messapici e/o romani. L’uso di pompe a fango, di costo irrisorio, permetterebbe, per non voler parlare di paratie impermeabili (come a Pisa), di mantenere anidro lo scavo e di mettere a giorno quanto presente al di sotto…”.

Niente! Tutto questo parlare non è servito a niente!
Ancora una volta si è perpetrato, a danno della città, il vizio di abbattere beni storici (lungo è l’elenco delle malefatte commesse nel tempo) o di seppellirli sotto il cemento per un futuro godimento dei nostri lontani discendenti. Senza sapere che, come sentenzia Edmond Burke: “coloro che non hanno riguardi per i propri antenati non possono averne per i propri posteri”...

Probabilmente, senza fidarsi delle Autorità cui era dovuta la decisione finale, si sarebbe dovuto fare come fecero le svampite signore inglesi nell’incantevole film di Franco Zeffirelli "Un tè con Mussolini" allorché, per salvare i capolavori toscani, s’incatenarono agli edifici che i nazisti volevano radere al suolo.
Nel nostro caso avremmo dovuto fare un sit-in sui resti antichi del lungomare!

E’ chiaro ora perché all’inizio ho fatto riferimento alla pietra di San Bernardino? Un paesino (all’incirca duemila anime) le cui origini risalgono intorno al 778 d.C. ha molto più a cuore le proprie testimonianze rispetto a una città la cui storia sconfina nella mitologia.
E visto che ai prestiti museali siamo avvezzi (l’Ercole brindisino docet) sarei propenso a chiedere temporaneamente al Comune di San Donato V.C. la pietra dello scandalo. La collocherei nei giardinetti di piazza Vittorio Emanuele e vi farei sedere, a turno, tutti quelli che hanno contribuito a mettere in essere questa vergogna!
Anche se ˗ come scrive Ludmila Ulitskaya a proposito della repressione in atto nella Russia di Putin: “… Ci vergogniamo per le nostre autorità. E, a essere onesti, ci vergogniamo di noi stessi. Perché, alla fine, viviamo tutti nel Paese che abbiamo costruito noi” ˗ siamo chiamati anche noi a rispondere di questo sopruso.
Come dire che dovremmo sederci tutti ˗ amministratori e amministrati ˗ sulla pietra di San Bernardino!

Guido Giampietro


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