Approfondimenti » 05/10/2013
Il “selfie” o dell’edonismo consapevole. Di Guido Giampietro
Il gruppo, dopo estenuanti e millimetrici spostamenti, è finalmente inquadrato nel mirino. Anzi, no.
«Lasciate in prima fila un posto per me» grida l’operatore un attimo prima di abbassare la levetta dell’autoscatto della Leica pericolosamente in bilico sul tettuccio di un’auto.
Segue la volata da centometrista e la torsione-lampo del corpo verso l’obiettivo. Proprio nel momento in cui si percepiva, inesorabile, il clic della macchina fotografica.
Il più delle volte si arrivava tardi e allora la foto, mossa e sfocata, poteva sembrare un’opera di Thomas Ruff.
Così andava il mondo.
E non mi riferisco solo ai tempi in cui si doveva decidere a priori se caricare una pellicola Ferrania con una sensibilità di 18° Din o una Agfa di 21° o una Kodak Pancromatic di 24°. Né quello era l’unico impiccio. Dopo, infatti, occorreva consegnare il rollino al fotografo di fiducia e, per la stampa a colori, attendere pazientemente la spedizione da Milano prima di vedere com’erano venute le riprese.
Ma le foto con autoscatto, levetta a parte, sono eseguibili anche oggi con le macchine digitali agendo sulle funzioni di un menù per la verità non sempre comprensibile ai non-informatici.
Vecchiume anche questo. Infatti, nell’era dello smartphone, possiamo avvalerci del “selfie”!
Qual è il significato di questo neologismo? Le lingue muoiono al ritmo di una ogni due settimane e si stima che nel giro di un secolo dei settemila linguaggi oggi parlati ne rimarrà solo la metà. È triste perciò quando muore una lingua. Ma che allegria quando nasce una nuova parola. Come il selfie.
L’Oxford Dictionaries (da non confondersi con l’Oxford English Dictionary!), il 28 agosto u.s., ha inserito nel suo vocabolario questa parola che sta diventando il simbolo di un nuovo modello di autorappresentazione. Selfie vuol dire letteralmente “autoscatto”. Si tratta di una mania, un nuovo modello sociale, un sistema comportamentale. È l’autoscatto realizzato con il telefonino, allungando il braccio e riprendendosi da soli.
Non è ancora sufficientemente chiaro o si fa finta di non capire? Basta fare un giro su un qualsiasi social network, da Facebook a Instagram a Pinterest, per rendersi conto della rivoluzione in atto. Migliaia, milioni di foto di facce riprese in tutte le possibili condizioni psicologiche, di luce, meteorologiche, di trucco. E i profili fotografici delle donne (ma non solo) testati sui “diari” che cambiano a ogni levare del sole. Addirittura alcuni ad intervalli di poche ore…
A dare a questa moda il carattere della sacralità ha provveduto la foto in cui, il 30 agosto, Papa Francesco appare insieme a tre ragazzi di Piacenza. Una foto che ha fatto il giro del mondo, con quei volti appiccicati gli uni agli altri per esigenze di spazio (vi immaginate una foto del genere fatta insieme a un gelido Papa Pacelli, alias Pio XII…?). Sicuramente è questo, tra i tanti, il più eclatante caso di autocertificazione.
Ma non sono mancati altri autorevoli esempi. Così nei festival letterari (Sarzana, Mantova, Pordenone, Modena, Piacenza… solo per citarne alcuni) le teste di fior di scrittori ˗ sfocate, distorte o tagliate (ma che importa? Basta esserci) ˗ a stretto contatto epidermico con quelle dei lettori-acquirenti hanno sostituito le faticose dediche apposte sui libri (faticose per i “grandi” scrittori; per i “piccoli”, invece, continuano ad essere una goduria…).
Ma anche i politici non sono da meno. Per esempio, ha suscitato molto interesse un autoscatto da smartphone di una compiaciuta Angela Merkel prima che le arridesse il trionfo nell’ultimo “certamen” elettorale.
D’altro canto l’autoritratto affonda le origini nel passato. Basta ricordare quello in primo piano di Leonardo da Vinci. O Velázquez che ritrae se stesso mentre dipinge i reali di Spagna nel celebre “Las Meninas”. Per non parlare di Van Gogh e, soprattutto, di Warhol che, per primo, ha portato alla luce quel comune sentimento che anima i feisbucchiani di tutto il mondo: “il quarto d’ora di celebrità”.
Purtroppo l’autoscatto non riguarda solo i volti, ma sempre più si estende al resto della persona e a tutto ciò che il braccio-leva riesce a fare entrare nel raggio d’azione dello smartphone. Compaiono così i piedi, magari quelli abbronzati e tenuti a mollo nelle acque di una spiaggia nostrana o, per i più fortunati, sulla battigia di un’isola polinesiana dalla rena bianchissima.
E non manca l’autocertificazione delle pietanze un istante prima che vengano ingurgitate. Si riprendono così le tavole imbandite di ogni ben di Dio, quasi a volere esorcizzare lo spettro di una carestia che è sempre pericolosamente dietro l’angolo.
Naturalmente tutti questi scatti non rimangono nella rubrica “Immagini” del telefonino, ma in tempo reale finiscono in Rete diventando così patrimonio collettivo e stratificazione di memoria. Alla faccia dei vecchi, cari album di famiglia in cui le foto, amorevolmente sistemate grazie all’ausilio degli angolini gommati e preservate dagli intercalari di carta velina, testimoniavano ˗ in forma del tutto privata ˗ gli eventi più belli delle famiglie.
Insomma, grazie al selfie, abbiamo tutti il nostro specchio parlante, quello della matrigna di Biancaneve. Uno specchio parlante che, per di più, vive in Rete. “Specchio delle mie brame… chi è la più bella del reame?”. E lo specchio-telefonino dirà quello che vogliamo sentirci dire.
Ma il selfie, volenti o nolenti, fotografa la realtà del nostro tempo. Racconta la storia del nostro presente. Un presente “liquido”, come dice Zygmunt Bauman. Soprattutto narcisistico, superficiale e non ideologico, contorto e deformato come le immagini che compaiono sui display dei cellulari.
Peccato! Perché siamo arrivati al punto che non riusciamo più a vedere. Guardiamo senza vedere. Non abbiamo più la percezione di quello che ci circonda. Ci sfugge il dettaglio, quelle parti magari marginali di una immagine che però possono colpire la sensibilità e aprire la porta all’emozione, al ricordo, alla comprensione.
«Si è persa ˗ come dice Claudio Magris ˗ l’arte del “flaneur” (o forse non l’abbiamo mai avuta), del vagabondo che passeggia tra rovine del passato ed epifanie del futuro, tra boschi e città, cogliendo con tenerezza l’universale nell’effimero dettaglio».
In un passaggio di “Sul guardare”, John Berger scrive: «Se desideriamo rimettere una foto nel contesto dell’esperienza, dell’esperienza sociale, dobbiamo rispettare le leggi della memoria. Dobbiamo collocare la foto stampata in modo che acquisti qualcosa della sorprendente compiutezza di ciò che “era” ed “è”».
Allora dobbiamo convenire che il selfie, anche quando riprende un occhio bistrato o una sanguinolenta bistecca alla fiorentina, contribuisce a restituire l’immagine di vanità e banalità del presente. Un presente che, nel bene e nel male, ci appartiene.
Guido Giampietro
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