Approfondimenti » 29/11/2013
Padri e figli. Di Guido Giampietro
Un tempo il termine crisi era associato quasi esclusivamente alla politica e costituiva il severo banco di prova delle Cancellerie di tutti i Paesi per evitare lo scontro finale: la guerra. Invece, subito dopo l’attentato alle Torri Gemelle del 2001, è diventato sinonimo di crisi planetaria. E oggigiorno la parola è oramai legata al mondo dell’economia e dell’alta finanza e si avvale di un linguaggio anglofilo (“spread”, ne costituisce il capofila) incomprensibile ai non addetti ai lavori.
Di crisi dei valori, o della società in senso ampio, invece, se ne parla molto meno. E, se lo si fa, si rischia di essere etichettati come nostalgici di un sistema di vita che il progresso ha definitivamente bocciato.
Della crisi della famiglia, poi, e più specificatamente di quella generazionale tra padri e figli, si parla solo sottovoce e quasi esclusivamente in ambito religioso. Senza rendersi conto che invece è la crisi madre di tutte le crisi!
In un convegno tenutosi recentemente su questo argomento mons. Vincenzo Paglia ˗ Presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia ˗ ha detto che, se volessimo rappresentare il susseguirsi delle generazioni con i piani di un edificio dovremmo concludere che tra un piano e l’altro non esistono né scale né ascensori. Singolarmente funzionali, risultano però staccati dall’edificio di cui dovrebbero costituire parte integrante. Ebbene, quei piani, scollegati e non raggiungibili, possono dare l’idea degli attuali rapporti tra genitori e figli. In particolare, tra padri e figli.
Sono lontani i tempi in cui il Giusti scriveva al figlio: «… Mi duole di conturbarti questo tuo animo semplice, confidente, affettuoso, ma non posso fare a meno di dirti che non sempre troverai gli uomini così carezzevoli, così disposti a giovarti come li trovi ora. Sentirai bisogno di consiglio, di conforto, d’aiuto, e forse non l’avrai dagli altri… Dio non lo voglia, ma così buono e ingenuo come sei, viverai infelice. Queste cose te le dico perché le ho provate io stesso…».
Ecco, questo dialogo è mancato nel recente passato e tuttora è latente. A dirla tutta, la generazione dei “grandi”, quella dei padri, è venuta completamente meno alle proprie responsabilità. Ha rifiutato il dialogo ritenendo di poterlo sostituire con i prodotti che il consumismo mette in mostra nei Centri commerciali e nelle vetrine del “griffato”. Si è dannata l’anima per “arrivare” ed essere in condizione di dare ai figli le cose che a loro erano state negate. Le stesse che tutti gli altri padri danno ai loro figli. Quando, invece, bisognava semplicemente donare loro l’anima…
Ora è giunto il tempo di fermarsi per guardarsi dentro. Come diceva Ende Michael: “Siamo andati avanti così rapidamente in tutti questi anni che ora dobbiamo sostare un attimo per consentire alle nostre anime di raggiungerci”.
E la prima costatazione è che la generazione dei giovani è alla disperata ricerca dei padri. L’orgoglio, o forse l’ottundimento causato dal vuoto chiassoso della vita moderna, impedisce loro di confessare questa esigenza. Ma è così. È lontano il tempo in cui la presenza paterna ˗ il padre-patriarca ˗ risultava perfino fastidiosa e lo scontro, inevitabile, scaturiva da quella che veniva giudicata una inopportuna ingerenza nella vita dei figli.
Oggi, al contrario, c’è bisogno dei padri. I giovani, mai così fragili come in questo momento, hanno bisogno di punti di riferimento, di certezze che possono venire loro solo dalla figura paterna. Si è detto che sono mitologicamente assimilabili a Telemaco. Questi, in riva al mare, scrutava trepidante l’orizzonte in attesa del ritorno del padre che avrebbe dovuto fare piazza pulita dei Proci che insidiavano la madre e dilapidavano tutte le ricchezze della casa. Allo stesso modo i “duri” ragazzi di oggi attendono un intervento salvifico del loro Ulisse.
La colpa, dunque, prima ancora dei giovani, sembra essere dei padri che sono come “evaporati” proprio nel momento in cui i figli, per costruirsi il futuro hanno bisogno della loro presenza.
D’altro canto ˗ continua mons. Paglia ˗ nell’intera tradizione biblica, sia giudaica che cristiana, l’alleanza tra le generazioni è centrale. Basti pensare al fatto che la trasmissione della fede nella Scrittura assume la forma della narrazione dei padri ai figli di quanto Dio ha fatto per il suo popolo.
Generare è narrare: “Ciò che abbiamo udito e conosciuto, che i nostri padri ci hanno raccontato, non lo terremo nascosto ai nostri figli, che racconteranno alla generazione seguente le lodi del Signore, e la sua potenza, le meraviglie che egli ha compiuto” (Salmo 78). Tutta la storia biblica è innervata sulla trama del succedersi delle generazioni.
Ma quando i figli ˗ come avviene ai giorni nostri ˗ sono capaci di utilizzare le tecniche meglio dei genitori; quando sono loro i veri padroni dei “social network” e dei nuovi linguaggi multimediali, si può ancora trasmettere qualcosa? E, soprattutto, c’è qualcosa che valga la pena di trasmettere loro? Sono domande che spesso inquietano i padri (e le madri) fino a rischiare di mettere in discussione, se non l’amore, l’impegno verso la prole.
Una risposta ce la fornisce indirettamente il giornalista Michele Serra con il suo ultimo libro “Gli sdraiati” (Feltrinelli). Tanto per intendersi, gli sdraiati sono i padri e i figli moderni: gli uni perennemente distesi su un letto alla ricerca delle risposte ai grandi quesiti dell’umanità; gli altri su un divano con le cuffiette sugli orecchi. Mentre il resto del mondo è in piedi a darsi da fare.
Nel caso portato avanti dal Serra è il padre che si sforza di appigliarsi a qualsiasi cosa pur di condividere con il figlio un brivido di fronte allo spettacolo del mondo. Al piacere della bellezza naturale, assoluta. Il rovello che spinge il padre a raccontare è una domanda: che cosa lascio a mio figlio? Anche in queste pagine c’è l’invettiva, la rabbia esplosiva del padre spaesato di fronte a quel “groviglio interconnesso” che è il figlio. E la dolorosa constatazione dell’incapacità di creare un contatto basico tra generazioni proprio nell’epoca del contatto diffuso!
Alla fine il padre, l’io narrante, intravede uno spiraglio di luce e una risposta riesce a darsela. “Finalmente potevo diventare vecchio”, conclude, lasciando intuire come il gap generazionale possa essere superato. Solo che lo si voglia, naturalmente.
Non rimane di augurarsi che la battuta finale del libro possa diventare l’esclamazione rassicurante e liberatoria di tanti padri. Di tutti i padri.
Guido Giampietro
|