Approfondimenti » 04/01/2014
Non sempre la tecnologia ci è amica. Di Guido Giampietro
Quanto è stato scritto sulla Natura! E con quanta ammirazione e amore. Fino al punto da confessare che l’uomo non ne è degno. Diceva il filosofo rumeno Emile Cioran: «Ammettendo l’uomo, la natura ha commesso molto più di un errore di calcolo: ha commesso un attentato contro se stessa».
Tra le più belle descrizioni letterarie di un paesaggio mi piace ricordare quella di Jane Austen in “Mansfield Park”: “Fanny ebbe il piacere di vedere Edmund rimanere con lei alla finestra, e di scoprire che ben presto volgeva lo sguardo, come lei, verso il paesaggio, così solenne, placido e consolatore nello splendore di una notte senza nubi e nel contrasto con la profonda oscurità dei boschi. «Quanta armonia ˗ disse Fanny ˗ E che pace. È qualcosa che supera ogni quadro e ogni melodia, e solo la poesia può tentare di descriverlo. Qui tutte le inquietudini si placano, il cuore s’innalza rapito. Quando guardo una notte come questa, mi pare che al mondo non possano esistere né ingiustizia, né dolore, e certo ci sarebbe meno ingiustizia e meno dolore se gli uomini sentissero di più la sublimità della Natura e si lasciassero trasportare fuori di sé dalla contemplazione di una sera come questa…»”.
E se questo brano ˗ ho pensato ˗ lo facessimo leggere ai facoltosi villeggianti di Cortina d’Ampezzo che in questi giorni di festività natalizie sono stati costretti a dimorare “al freddo e al gelo” nei loro alberghi a cinque stelle plus? Poche ore d’interruzione della corrente elettrica (fatto di per sé assurdo in un Paese che scivola sempre più giù! Ma questa, come direbbe Kipling, è un’altra storia) sono state sufficienti a mettere a nudo le loro fragilità, le loro debolezze, le loro paure nei confronti di una Natura che ˗ da che mondo è mondo ˗ ha sempre riservato di queste sorprese.
Qui non si è trattato dell’eruzione del Vesuvio che nel 79 d.C. seppellì sotto una mortale coltre di strati pomici Pompei ed Ercolano. O del terremoto che squarciò Messina e Reggio Calabria nel 1908. E nemmeno dello tsunami che devastò le coste dell’Oceano Indiano nel dicembre del 2004. Qui, a Cortina, non ci sono state vittime, ma solo un blackout che ha messo in ginocchio la ricca certezza della regina delle Alpi.
Con il risultato ˗ assolutamente non catastrofico ˗ degli alberi di Natale spenti, e delle decorazioni luminose anche esse spente, e dell’illuminazione pubblica periferica desolatamente spenta, e dei negozi delle grandi griffe mortificati da un buio proletario. Né sono intervenuti la Protezione civile o i Vigili del Fuoco o l’Esercito a liberare le strade da fango e macerie. Gli unici mezzi giunti sono stati i generatori che l’Enel ha inviato per attutire i disagi del blackout nei sestieri della cittadina del lusso.
Eppure, anche se i ricchi turisti non piangono, nel loro piccolo ˗ al pari delle formiche di Gino & Michele ˗ s’incazzano e qualche giorno fa hanno minacciato di andare a passare l’ultimo dell’anno altrove. E come potrebbero infatti fermarsi in alberghi dove diventa impossibile esibire la propria mondanità a lume di candela e, nel contempo, sopportare quella degli altri? In ambienti dove l’intimità dei camini e l’aroma della resina dei ciocchi non riesce a scaldare il loro gelido aplomb.
Come potrebbero continuare a consumare i pasti nei ristoranti a quattro-cinque forchette con l’atroce dubbio che il filetto flambé al pepe preparato dal maitre internazionale si sia scongelato con il blackout e poi ricongelato grazie all’ausilio dei generatori? O farsi notare sulle piste dove non funzionano cabinovie, ovovie, sciovie, skilift e tutte le altre diavolerie atte a rendere meno faticoso l’impatto con la natura da parte dei “cummenda” e delle loro attempate signore?
Oggi, come afferma il giornalista Mauro Corona, “sembra che una distanza di due secoli ci separi da quando l’uomo se la cavava benissimo a contatto con gli eventi naturali. Invece non ne sono passati nemmeno cinquanta e in questo tempo l’uomo, anche a causa della tecnologia galoppante, ha perduto la capacità di convivere con la natura. In un passato nemmeno lontano capitava nei paesi di montagna, Cortina compresa, di rimanere isolati per sette-otto mesi all’anno e le persone non se ne accorgevano nemmeno”.
Adesso la natura è diventata nemica perché la tecnologia ha preso il posto dell’ingegno. Prima si teneva vivo il fuoco sotto la cenere e per tutto l’inverno il fuoco non moriva mai, lo si metteva solo a nanna. Oggi ci sono persone che hanno voluto una di quelle cucine senza la fiamma del gas ma con le piastre di vetro che scaldano. Qualcuno ha chiesto loro che cosa avrebbero fatto da mangiare se fossero rimasti senza corrente… Sono rimasti annichiliti!
Quello che, con il progresso, sì è perduto non sono le comodità, ma la magia di una candela che sulle pareti delle stanze semibuie fa danzare le ombre, dando loro una vita che la luce elettrica non è in grado di imitare. E, soprattutto, si è perduto il senso del mutuo soccorso e della solidarietà che si manifestano nel momento in cui le persone, o un’intera comunità, soffre di un isolamento dovuto a cause naturali. Esattamente quello che si verifica nelle isole quando le cattive condizioni meteo le pongono al di fuori del mondo.
Per motivi professionali ho vissuto per più di tre anni a Pantelleria, la “perla nera” del Mediterraneo. Un posto incantevole d’estate, un paradiso per i sub e, in genere, per gli amanti d’una vita a stretto contatto con la natura. Ma alla fine di settembre, quando gli ultimi turisti lasciano frettolosamente l’isola, anche per il timore d’essere impossibilitati a ripartire a causa delle sciroccate che rendono il porto e la pista d’atterraggio inavvicinabili, le cose cambiano… E come!
Anch’io, il primo inverno, mi sentii prigioniero degli elementi della natura o, che è lo stesso, un confinato come quelli che il regime fascista inviava in luoghi come questo. Il fatto di non poter partire (ove ne avessi avuto la necessità) mi lasciava in uno stato d’insoddisfazione, oltre che d’impotenza. Fin quando gli isolani non m’insegnarono che proprio d’inverno, allorché Pantelleria tornava ad essere dei panteschi, si potevano apprezzare le bellezze selvagge dei luoghi. E prendeva corpo la “complicità”, la solidarietà che legava gli uni agli altri.
L’isolamento del luogo, in certi momenti inaccessibile dal mare e dal cielo, rinsaldava i vincoli di amicizia tra quegli abitanti. Li rendeva più disponibili a venirsi incontro, a scambiarsi favori, a divertirsi (il Carnevale si protraeva fino a Pasqua…) senza la paura di doversi trovare davanti ai malintenzionati del “Continente”. Gli usci delle abitazioni, infatti, rimanevano con le chiavi all’esterno della toppa così da accogliere chiunque avesse bisogno di qualche cosa…
Nei mesi invernali di quegli anni l’isola temprò il mio carattere facendomi toccare con mano la condizione fortunata di chi, da sempre, era abituato a non vivere da allegra cicala, ma da previgente formica. E così, quando andai via, piansi per la seconda volta, proprio come è successo a Claudio Bisio in “Benvenuti al Sud”.
Mi rendo conto che non si possano stabilire confronti tra Cortina e Pantelleria e tuttavia questa forzata austerity in pieno clima natalizio deve quantomeno costringere ad una riflessione. Non tanto ad essere più disponibili verso il prossimo (per quanto non guasterebbe…), ma almeno ad apprezzare la temporanea disconnessione dai social network a favore del romanticismo di una candela. O no?
Guido Giampietro
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