Approfondimenti » 18/01/2014
Speranze grandi e piccole. Di Guido Giampietro
Dice Voltaire: «Invece di lamentarci, dobbiamo ringraziare l’autore della natura per averci donato questo istinto che ci sospinge senza posa verso il futuro. Il tesoro più prezioso dell’uomo è questa “speranza” che mitiga le nostre afflizioni, e che nel possesso dei piaceri presenti ci configura i piaceri futuri. Se gli uomini fossero così sfortunati da occuparsi solo del presente, non si seminerebbe, non si costruirebbe, non si pianterebbe, non si approderebbe a nulla; ci si troverebbe privi di tutto in mezzo a falsi godimenti».
Speranza, dunque. E qual è il momento più giusto per sperare se non l’inizio del nuovo anno che immaginiamo ˗ vogliamo ˗ diverso da quello appena concluso? Il più diverso possibile.
Certo, se ci guardiamo intorno, sia a livello locale che nazionale, non c’è da stare allegri. L’orizzonte è pieno di nere nubi che minacciano tempesta. E allora ci arrendiamo senza neppure pensare che le cose, se ci diamo da fare, possano andare ˗ se non proprio meglio ˗ quantomeno diversamente. Bisogna perciò affidarsi a questa parola magica che è “speranza”.
Una parola screditata, afferma Dacia Maraini, perché apparentemente morbida e fragile. Ma che pure ha un cuore di ferro. Una parola che ad alcuni suscita un risolino beffardo, ad altri uno sbadiglio di noia. “Ma pure bisogna riconoscere che senza speranza la realtà si imbalsama come fosse un corpo morto. Un corpo dal cervello piatto che, nell’euforia dell’onnipotenza tecnologica, teniamo in vita pompando sangue dentro vene inerti”.
Eraclito diceva che “senza speranza è impossibile trovare l’insperato”. Naturalmente non bisogna aspettarsi che le cose si aggiustino da sole o, che è lo stesso, siano gli altri a farlo. Sperare comporta un lavorio personale, una sofferenza nel cercare di conseguire certi risultati che devono essere raggiungibili nel breve termine. Le pianificazioni a medio/lungo termine seguono altri percorsi, più faticosi e molto meno controllabili.
È per questo motivo che faccio un distinguo. Una cosa sono le “piccole” speranze e un’altra le “grandi”. Le prime ci stimolano a lottare perché vediamo il risultato a portata di mano (o quantomeno realizzabile nell’anno solare in corso); per le altre, invece, siamo costretti a fare affidamento sul concorso dell’intera comunità in modo che, seguendo percorsi cronoprogrammati, si giunga alla realizzazione di progetti di più largo respiro.
Quindi non mi sfiora neppure l’idea di fantasticare sull’acquisizione comunale del Castello Svevo. Né penso che mai si giungerà a definire cosa s’intenda fare del Castello Aragonese: se un Museo, un Hotel a cinque stelle plus, un casinò, una aerostazione per idrovolanti invisibili (l’ultima bufala della scorsa estate!), al pari dello stealth, il bombardiere B-2 Spirit. E tantomeno ipotizzo che possa mettersi la parola fine sulla destinazione d’uso da dare al glorioso ex Collegio Navale “N. Tommaseo” (almeno fino a quando non crollerà del tutto e si dovrà fare l’appalto per smaltire il materiale di risulta).
Ma nemmeno ˗ non me ne vogliano quelli del partito delle “priorità” cittadine se tiro ancora una volta in ballo questo spinoso argomento ˗ affido alla speranza il progetto di avere a Brindisi un Palasogno in grado di ospitare una squadra che sta dando sportivamente (e non solo!) lustro alla città dall’alto della sua classifica. Un lustro che, purtroppo, viene offuscato e ridicolizzato a livello nazionale e anche internazionale proprio per quella sede palesemente inadatta.
“Tin gym in the south-eastern most part in Italy, one of the smallest, hottest & strangest I’ve been” (“Una minuscola palestra nel profondo sud-est dell’Italia, una delle più piccole, calde e strane in cui sia mai stato”). Così si è espresso su Tweetter Jonathan Givony, presidente di Draft Express, uno dei servizi di scouting più famosi al mondo, presente al Pala Pentassuglia durante la gara tra Brindisi e Siena.
Ecco, queste sono le noti dolenti che non possono essere oggetto di speranza, almeno dal mio punto di vista. E chiunque dovesse parlarne senza cognizione di causa (e senza fare riferimento a documentabili risorse finanziarie) andrebbe messo subito alla gogna. Non solo quella giornalistica, ma quella vera: appeso a uno dei pennoni che si trovano davanti il Palazzo di Città…
Invece meglio affidarsi alle “piccole” speranze. I risultati non saranno eclatanti, ma almeno certi. Cominciamo dal water front che io, da tempo, ho ribattezzato sea front in quanto più aderente alla realtà. Dopo tante chiacchiere, “tavoli” (mi fa sorridere questo termine che ha soppiantato quello più semplice di conferenze di lavoro) e firme di protocolli (forse con l’inchiostro “simpatico”) mi chiedo che fine abbiano fatto le zone del porto interno che la Marina Militare avrebbe dovuto cedere al Comune in cambio di altrettante zone del porto medio e anche esterno. Con l’aggiunta, però, di tutte le predisposizioni logistiche…
Mi riferisco al terreno adiacente al Monumento al Marinaio, sul quale si trova ancora qualche boa arrugginita, e quello ˗ la “carbonifera” ˗ all’estremità del Seno di Levante. Zone sulle quali il Comune ha sventolato dettagliati e propagandistici progetti e che, di fatto, impediscono ancora al cittadino la fruizione di quei tratti del lungomare. Cosa si aspetta ad appurare su quale scrivania ministeriale si sono arenate le pratiche?
E che fine ha fatto il proposito di chiedere al Comando Marina l’accesso (anche saltuario) al lungomare che inizia da Porta Thaon de Revel e, costeggiando l’ex Arsenale (ridotto oramai a un disarmante schieramento di vuoti manufatti e inutili ferraglie), finisce a ridosso del Seno di Ponente? Anche qui, in occasione dell’inaugurazione del Parco XIX Maggio (Cillarese), promesse, paroloni, strette di mano tra gente dell’Amministrazione e gente in uniforme, e poi più nulla… E pensare che, oltre a far passeggiare il cittadino su un tratto di mare ˗ il “suo” mare ˗ che non conosce, la Marina, in quella Città Proibita, in quei fabbricati fatiscenti, potrebbe creare un proprio Museo e renderlo fruibile a brindisini e turisti!
Ma ce n’è anche per l’Autorità Portuale. È ancora in piedi il discorso sul recupero dell’ex capannone Montecatini e la riqualificazione dell’area circostante? Un progetto sulla cui realizzazione ha di recente offerto la propria disponibilità una delegazione del Consiglio dell’Ordine degli architetti in visita ad Haralambides.
E visto che l’Autorità Portuale ha realizzato il capolavoro di far sparire tutte le navi dal porto interno e, tra non molto, da tutto il porto, perché continua ad occupare gli spazi di quella che un tempo fu la Stazione Marittima? La Stazione oramai non esiste più! Né quella marittima né quella ferroviaria di cui, proprio in questo periodo, si stanno portando via gli ultimi fasci di binari.
E allora perché l’Autorità non restituisce alla città anche quel tratto di lungomare e l’edificio che potrebbe tornare ad essere, come nel passato, un bellissimo bar-ristorante con una veduta mozzafiato sul porto? Troppo bello per il Presidente e per la sua dirigenza godere di quei magnifici locali (e annessi, comodi parcheggi) senza svolgere le funzioni loro richieste! O svolgendole al minimo. E allora, per quello che fanno e i traffici (una parola un po’ grossa) che gestiscono, potrebbero andarsene a Punta delle Terrare ristrutturando all’uopo la villa del fantasma. Penso che con quel condomino s’intenderebbero benissimo!
“La speranza è una cosa dotata di ali ˗ dice Emily Dickinson ˗ che mette su casa nello spirito e canta un canto senza parole e non si ferma mai”. Con quel poco di voce che ci è rimasta, ci tocca dunque cantare se vogliamo che qualcosa in noi voli. Ed io spero tanto che volino almeno queste “piccole” speranze e riescano a realizzarsi nell’interesse della città. Perché è la città ad averne bisogno, prima ancora dei cittadini. Non occorrono grandi mezzi per farle divenire realtà. Occorre solo buona volontà da parte di tutti. Anche della Marina Militare e dell’Autorità Portuale.
Guido Giampietro
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