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Approfondimenti: Ritorno al labirinto. Di Guido Giampietro



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Approfondimenti » 31/01/2014

Ritorno al labirinto. Di Guido Giampietro

Ci fu un tempo, quando la mitologia non era ancora diventata Storia, che si cominciò a costruire labirinti. Come quello di Cnosso piazzato dal re Minosse sull’isola di Creta per rinchiudervi il mostruoso Minotauro che il gossip dell’epoca diceva nato dall’unione della moglie Pasifae con un toro. Quella costruzione era un intrico di strade, stanze e gallerie realizzata dal geniale Dedalo con il figlio Icaro. Tanto complicata che i due, quando la terminarono, vi si trovarono prigionieri.
Dedalo fece allora delle ali che appiccicò con la cera alle loro spalle ed entrambi ne uscirono volando. Ma questa, come direbbe Kipling, è un’altra storia…
Quando Androgeo, figlio di Minosse, morì ucciso per mano di alcuni ateniesi infuriati perché aveva vinto troppo ai loro giochi, il re, per vendicarsi, decise che la città di Atene ˗ sottomessa allora a Creta ˗ dovesse inviare ogni nove anni sette fanciulli e sette fanciulle da offrire in pasto al Minotauro. Questo avvenne finché Teseo, con l’aiuto del filo di Arianna, non entrò nel labirinto, uccise il mostro e riuscì ad uscirne.
Poté farlo perché quel labirinto era univiario (o unicursale), ovvero costituito da un unico, involuto percorso che conduceva inesorabilmente al suo centro. Il labirinto d’epoca successiva è invece meno semplice ed è sinonimo di un tracciato multiviario (o multicursale), con vicoli ciechi e biforcazioni. Così i romani amplificano il labirinto greco dividendo il cerchio o quadrato in quattro zone con un percorso unico che le attraversa successivamente. Situato all’ingresso delle grandi domus, era destinato a scoraggiare ladri e altri malintenzionati. Altro che gli inutili sistemi antifurto d’oggigiorno!

I labirinti medievali, come quelli realizzati nelle cattedrali di Chartres e Reims (ma anche Siena), rappresentano invece il cammino simbolico dell’uomo verso Dio e spesso il centro era proprio la “Città di Dio”. La funzione è quella di essere un simbolo del pellegrinaggio, o del cammino di espiazione. Spesso veniva percorso durante la preghiera e aveva la validità di un pellegrinaggio per chi non poteva intraprendere un vero viaggio.
Poi il labirinto divenne un gioco senza senso, una perdita di tempo o, come quello viennese di Schönbrunn (distrutto nell’Ottocento perché diventato uno scandaloso ritrovo di coppie), luogo di divertimento e piacere per dame e cavalieri, grazie agli anfratti che offrivano spazi propizi a incontri erotici.
A parte la struttura e la simbologia c’è anche la letteratura a interessarsi dei labirinti. Prima tra tutti Jorge Luis Borges che ha dedicato diverse novelle alla teoria del labirinto che spesso simboleggia l’imperscrutabilità del disegno divino che ha creato l’universo. Ma a parlare di labirinti c’è anche Italo Calvino, autore del saggio “La sfida al Labirinto”, Umberto Eco che ha inventato il labirinto-biblioteca de “Il nome della rosa”, Julio Cortázar, autore di una pièce teatrale (“Lo reyes”) ambientata alla corte di Minosse, e ancora, Friedrich Dürrenmatt, la Yourcenar, Victor Hugo ne “I miserabili”, Giulio Verne nel “Viaggio al centro della terra”...
Perfino i cantanti hanno trattato questo argomento. Adamo in “Non voglio nascondermi”: “È un amore clandestino / non è quello che sognai / è un oscuro labirinto / di cui non posso uscire mai…”. Ed Elisa in “Labyrinth”: “… Adesso tutto è un riflesso visto che / ho percorso la mia strada attraverso questo labirinto / e il mio senso di orientamento / è perso come il rumore dei miei passi… / e ho lasciato i miei desideri così indietro / trovo la mia unica salvezza nel giocare / a nascondino in questo labirinti…”.

Il labirinto, insomma, attraversa le varie epoche storiche, rispecchia l’evoluzione del pensiero umano e, in particolare, il rapporto tra autodeterminazione e limite. È, per eccellenza, l’emblema universale della ricerca dell’infinito, del non-limite da parte di noi esseri finiti e limitati. Non a caso la sua unica apertura ˗ ingresso e uscita ˗ ci tenta terribilmente al transito. Ma il labirinto parla anche di solitudine, di angosce e paure, di misteri occulti e segreti gelosamente custoditi…
Il labirinto moderno è Internet e il computer nel quale ci perdiamo! Ci si prefigge di raggiungere un obiettivo, si è convinti d’essere sulla buona strada, senza nemmeno accorgersi che si è continuamente dirottati da falsi messaggi che ci portano da tutt’altra parte. Si perde così la via intrapresa e si ricomincia. Ma intanto il nostro smarrirsi è segnato dall’angoscia…
E così è per la politica. La consapevolezza di quello che occorre per il benessere della società è fin troppo evidente. E i mezzi per raggiungerlo non mancano. Come la volontà e la determinazione. Ma quando ci s’incammina veniamo subdolamente indotti a imboccare le strade senza uscita indicateci da correnti e correntine partitiche… E perdiamo così di vista il centro, la meta. Ci vorrebbero le ali di Dedalo per elevarci su questo guazzabuglio di idee fuorvianti, ipocriti accomodamenti e progetti impossibili.

Ma completiamo la storia del labirinto giungendo ai giorni nostri. Sulla falsariga dei labirinti-giardino del Rinascimento il grande editore Franco Maria Ricci ne sta costruendo uno vegetale a Fontanellato, in provincia di Parma. Otto ettari di terreno, un percorso di tremila metri, centoventimila bambù di trenta specie diverse, e due costruzioni destinate ad ospitare la collezione bibliografica e artistica di questo mecenate e ad offrire spazi culturali e commerciali ai visitatori. Di tutto questo Ricci ne parla nel raffinato libro (come tutti i suoi, d’altro canto) “Labirinti” (Rizzoli, pp 224, € 60).
“Volevo che fosse il più grande del mondo ˗ confessa Ricci ˗ ma Borges, un giorno, mentre era qui nella mia campagna, mi ha detto che no, il labirinto più grande dove l’uomo può perdersi è il deserto. Quindi il mio sarà il secondo labirinto del mondo… E in seguito diventerà una fondazione botanica legata al bambù che regalerà le piantine a chi vorrà mascherare con cortine verdi quelle orribili fabbrichette, quei disgustosi capannoni artigianali che stanno devastando il paesaggio italiano…”.
Un percorso dell’anima, un perdersi per ritrovarsi rappresenta dunque il labirinto di Ricci che puntualizza: “Il percorso all’interno del mio labirinto dovrebbe servire a trovare la serenità, il silenzio, se stessi”.

Comincio a convincermi (non lo ero all’inizio di questa mia ricerca!) che in fondo non bisogna avere timore del labirinto o dei labirinti che quotidianamente ci presenta la vita. Faccio perciò mie le parole di Tiziano Scarpa: “Perché vuoi combattere contro il labirinto? Assecondalo, per una volta. Non preoccuparti, lascia che sia la strada a decidere da sola il tuo percorso, e non il percorso a farti scegliere le strade. Impara a vagare, a vagabondare. Disorientati. Bighellona”.
Vagabonderò, dunque, come il “flâneur” di Baudelaire nell’attesa di perdermi tra le siepi del labirinto di Ricci, ascoltando la musica delle canne di bambù sbattute dal vento…

Guido Giampietro


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