22/10/2002

Michele Di Schiena: ragionando di loschi affari e moralizzazione


Alcuni professionisti di Brindisi hanno nei giorni scorsi denunciato pubblicamente collusioni fra la politica locale e la criminalità organizzata sul versante degli appalti e lo hanno fatto, se si è ben capito, prendendo le mosse da notizie sia contenute in un esposto anonimo inviato nel luglio scorso ad un ufficio inquirente, sia diffuse da voci circolanti nell'ambiente cittadino e sia infine rivenienti da un rapporto redatto da una struttura investigativa antimafia.
Tale denuncia è stata poi drammatizzata dalla notizia di minacce anonime ricevute da due dei "denuncianti", in un caso con alcune scritte sui muri cittadini a firma di fantomatiche "Brigate rosse" e, nell'altro, con il recapito per posta di un proiettile. Hanno fatto seguito prese di posizione e polemiche, aspre critiche alla magistratura e l'annuncio da parte dei predetti professionisti della costituzione di un movimento o di un'associazione "per la moralizzazione della vita pubblica".
L'accaduto induce a fare qualche puntualizzazione e qualche sereno commento. Innanzitutto va precisato che, come è noto, nessun diretto ed immediato contributo possono dare alla giustizia le delazioni anonime le quali per legge sono prive di qualsiasi rilevanza indiziaria e probatoria sicché di esse "non può essere fatto alcun uso" salvo che contro il loro stesso autore quando siano corpo di reato o provengano dall'imputato. C'è però da aggiungere che gli scritti anonimi, pur non costituendo di per sé "notitia criminis" e non essendo perciò idonei a giustificare l'avvio delle indagini preliminari, non precludono l'attività investigativa in quanto gli organi inquirenti possono da essi trarre spunto per una legittima ed autonoma ricerca della notizia di reato. Si tratta di divieti e di limiti posti dalla legge e dalla giurisprudenza in materia di anonimi per evitare che l'attività giudiziaria e la civile convivenza vengano inquinate da improprie denunce che sono spesso strumento di lotte e di "veleni" originati da logiche tortuose e da interessi del tutto estranei alle ragioni della giustizia.
Non vi è dubbio però che, specialmente in zone afflitte dal fenomeno della criminalità organizzata, si può giustificare il ricorso alla denuncia anonima da parte di chi può subire gravi intimidazioni e ritorsioni ma anche in tali contesti è richiesto il rispetto della normativa in materia, sia pure nella più estensiva interpretazione possibile, ed un serio e responsabile lavoro di discernimento da parte degli inquirenti per capire caso per caso se si tratti di un'atterrita domanda di giustizia oppure di faide personali o manovre di bassa politica. E ciò allo scopo di valutare la sussistenza o meno delle condizioni necessarie per promuovere un'indagine e, in caso positivo, per deciderne la direzione e la portata.
E' un compito delicato che va disimpegnato con equilibrio e senso di responsabilità perché se si considerasse nella prassi l'anonimo come una vera e propria "notitia criminis" con conseguente avvio automatico delle indagini sollecitate si aprirebbe la strada ad una guerra di delazioni senza esclusioni di colpi e senza confini recando un grave "vulnus" alle regole di garanzia ed ai principi dello stato di diritto. Quanto detto vale poi, a maggior ragione, per le cosiddette "voci diffuse" che sono anche esse processualmente inutilizzabili e che, per di più, risultano prive di quella oggettività documentale costituita dalla materialità cartacea che gli anonimi almeno posseggono. In merito infine alle notizie di inquinamenti mafiosi che sarebbero oggetto del rapporto di un ufficio antimafia, c'è da dire che il rapporto medesimo, quale che sia il suo reale contenuto, non dovrebbe essere riguardato altrimenti che come la confortante conferma di attenzioni investigative e di indagini già in corso da tempo che dal clamore suscitato possono ricevere solo nocumento e non certo accelerazioni o vantaggi.
Veniamo quindi alle minacce che confermerebbero l'assunto secondo il quale il sistema degli appalti sarebbe a Brindisi in mano ad organizzazioni malavitose in combutta con settori importanti del potere politico ed amministrativo. Nessun dubbio ovviamente che le minacce medesime (le scritte e l'invio del proiettile), quali che siano la loro matrice ed il loro movente, sono un fatto gravissimo che non può non determinare in tutte le persone civili un moto sdegnato di reazione e di piena solidarietà nei confronti delle vittime di tali scelleratezze, sentimento questo che si carica di particolare partecipazione in chi conosce e stima i due professionisti colpiti, ma tale solidarietà non implica una meccanica condivisione della tesi secondo la quale le intimidazioni sarebbero una risposta malavitosa alle pubbliche denunce di corruzione. E ciò per la considerazione, non certo peregrina, che una criminalità in "affari" di grande rilievo con ambiti degenerati del sistema politico non è ingenua e autolesionista ma è abile, dispone di validi consiglieri e si muove con circospezione e sagacia. Essa, molto verosimilmente, non "firma" i suoi atti con plateali coincidenze temporali perché non è così sprovveduta da confermare ciò che è invece interessata a negare. Certo, anche queste regole di comune buon senso possono in qualche caso non funzionare perché ciò che è improbabile rimane pur sempre possibile. Ma da qui a proporre come sicuro e scontato il collegamento tra denuncia pubblica di infiltrazioni mafiose, che peraltro erano già oggetto di indagine, ed i beceri atti di intimidazione è un assunto, fino a prova contraria, quanto meno opinabile.
Nessuno invero può avere dubbi su quanto sia seria e pressante l'esigenza di colpire e smantellare, ovunque si annidino, le corruzioni ed i connubi fra criminalità organizzata ed eventuali settori degenerati del potere politico e dell'economia. Infatti a Brindisi esiste certamente una "questione morale" che va affrontata con ogni determinazione anche sul piano investigativo e giudiziario.
Si deve però tenere presente che la "questione morale" è ben più ampia delle questioni penali perché riguarda i fondamenti della convivenza civile ed include anche comportamenti clientelari e lontani dall'interesse generale che spesso non sono giudizialmente perseguibili. La domanda che allora occorre porsi è se il modo migliore per combattere il nefando fenomeno sia quello di arroccare i "moralizzatori" dentro un ristretto sodalizio correndo, anche a dispetto delle migliori intenzioni, un duplice rischio. In primo luogo, quello di assolutizzare il momento repressivo con la trasformazione di fatto dei "moralizzatori associati" in una impropria agenzia di denunce generiche ed incontrollate che possono gravemente screditare le istituzioni e seminare la sfiducia nei confronti della magistratura proprio nel momento in cui sta esercitando un difficile controllo di legalità su materia delicata e complessa. Tirare i giudici per la giacchetta - e lo si ricorda come principio generale di riferimento - con l'obiettivo di indurli a colpire in direzioni prestabilite o, viceversa, per bloccarne l'attività investigativa o processuale non è mai stato e mai sarà un utile servizio reso alla giustizia.
In secondo luogo, c'è poi il rischio che il progettato sodalizio possa convertirsi progressivamente, dopo la fase delle pubbliche denunce e dei proclami, in un confuso cartello elettorale privo di progetto politico sulle sorti della città, sul suo modello di sviluppo economico e sul suo futuro occupazionale e ambientale. Si perdoni la ruvida ma rispettosa e dialogante franchezza: le aggregazioni degli "onesti", della "gente per bene" o dei "moralizzatori", comunque denominate, sono storicamente sempre state una risposta inadeguata e regressiva alla domanda di legalità e di giustizia.
Per moralizzare la vita pubblica è certo necessario e doveroso percorrere responsabilmente la "via giudiziaria" ma questa via rischia di risultare senza sbocchi di rigenerazione civile se non si parte anche, e soprattutto, dal rilancio della politica, quella con la "P" maiuscola, che la Costituzione indica come strumento privilegiato di formazione ed espressione della volontà popolare e quindi come "luogo" nel quale devono maturare le scelte nazionali e locali nell'esercizio, spesso anche aspro, del confronto e della dialettica democratica.

Michele Di Schiena
Giudice, presidente onorario Corte di Cassazione