22/06/2005

Tra dramma, sfiducia e sfida culturale. Di Emanuele Amoruso


La città sta vivendo giornate forse decisive per il proprio futuro. Ma a differenza di altre “situazioni” simili la “domanda” di possibile futuro questa volta comincia ad enucleare un tipo di risposta più articolata e non monotematica.
Quel che alcuni non “vedono” e neanche “sentono” come ricerca di “nuovo modo di pensare”, più adeguato alla complessità dei problemi e delle dinamiche sociali, necessita di uno sforzo “immaginativo” coerente, diffuso, coraggioso.
Ciò che dobbiamo imparare a “praticare” è un diverso approccio ai tanti temi/problemi che possono fare del complesso organismo cittadino e territoriale un vero “laboratorio” del nuovo. Non è la vecchia, e falsa, dialettica tra innovatori e chi invece parte dai dati concreti della realtà sotto la schiavitù dei bisogni immediati, ma dall’imperativo che scaturisce dal dover “frequentare” la modernità, o postmodernità per alcuni, come “continuo cambiamento” di paradigmi e soluzioni.
C’è troppa drammatizzazione da parte di forze sociali e istituzionali che riduce le stesse diversità di “soluzioni” a “ultima spiaggia” con il cadere anche in contrapposizioni personalistiche, assolutamente fuorvianti.
Ora, il percorso iniziato già da quasi due anni (ma da alcune componenti sociali, cosiddette “ambientaliste”, a far data da molto prima) alla ricerca di un diverso modello di sviluppo sta incominciando ad entrare nel vivo e obbliga da una parte a scelte coerenti – no al rigassificatore- e dall’altra ad avviare più concretamente l’individuazione di nuove configurazioni dell’assetto territoriale, delle funzioni, della “vocazione”, del fare “comunità – il convegno su “Brindisi, città d’acqua” ne è l’inizio propedeutico.
Tutto ciò non è un percorso semplice né indolore: passa attraverso la prefigurazione di risposte alle varie domande poste dalla società (dai lavoratori, dalle imprese, dalle famiglie, dai giovani, dai bambini, dalle donne, dai vari “city users” che frequentano la città etc.) che non possono più essere imprecise e improvvisate, demagogiche, alla ricerca di facile consenso, velleitarie e soprattutto a senso unico.
Fa bene il Sindaco Mennitti quando rammenta a tutti che il suo compito non è quello di “Ufficio di collocamento” e che occorre uscire dalla “stabilità nella miseria”, condizione psicologica e culturale di molti che vivono una identità di “comunità di destino” (come subcultura vera e propria) cui solo dall’esterno, con l’arrivo di falsi demiurghi e salvatori della patria, si possono dare prospettive.
Sul fronte della “ricerca” si sono poste le maggiori istituzioni rappresentative del territorio con la posizione non ambigua, sino a questo momento, degli stessi Consigli provinciale e Comunale. Certo Errico e Mennitti, come direbbero gli anglofoni, hanno dovuto esercitare l’azione del push and pull (spingere e tirare, anche per i capelli), ma si sentono confortati variamente da parte della società.
Siamo di fronte ad un cambiamento e solo proseguendo con tenacia, preveggenza e “scienza” possiamo sostenere questa “sfida” culturale.
A questa sfida occorrono diverse cose:
- una strategia di sviluppo (coniugare sviluppo umano oltre che economico e territoriale) ha bisogno di molte idee, progetti, modelli, implementazione e feedback continuo (anche per valutare gli effetti non desiderati e perversi delle azioni, per cui i risultati tradiscono spesso le intenzioni);
- superare le forme di intervento pubblico che hanno, purtroppo, privilegiato strutture ed infrastrutture avendo poca attenzione ai fattori sociali e al capitale umano;
- le forme di guida e rappresentanza degli interessi devono superare la cultura della pre-globalizzazione;
- la sostenibilità ambientale non è più un fastidio da affrontare ma un fattore irrinunciabile;
- i leaders istituzionali devono porsi come innovatori di paradigmi per guidare sia le politiche che gli strumenti, favorendo apprezzamento, da parte dei vari attori sociali e dei cittadini, dei processi e dei risultati piuttosto che fermarsi alla entità delle “risorse” mobilitate;
- tenere in attenzione le “complesse trame sociali” nei processi innovativi e la tendenza all’autorappresentazione e radicalizzazione del confronto politico-sociale;
- superare le vecchie gabbie ideologiche (destra/sinistra);
- distinguere i ruoli nella società del policentrismo dei poteri;
- cambiare i rapporti tra potere e sapere distinguendo tra micro e macro ( il paradosso del localismo), tra percezione e interpretazione dei fenomeni; la città è sempre più una ville a la carte che deve differenziarsi tenendo anche conto dei diversi “utilizzatori” senza “dimenticare” i cittadini;
- la domanda sociale di città è anche fatta di qualità della vita e non solo di efficienza e produttività; le politiche culturali sono un fattore decisivo per lo sviluppo e sono in forte connessione con quelle urbanistiche e sociali;
Sul piano delle relazioni sociali servono due cose:
a) trasformare l’impegno di molti in fiducia e cooperazione anche grazie alla funzione “nuova” dei media e di attivatori specifici della mediazione sociale;
b) sviluppare la “progettazione partecipata”.
Vi è una forte correlazione tra lo sviluppo-benessere e i fattori culturali (Putnam) e tra questi assume importanza la pratica di forme di democrazia innovativa (quale quella deliberativa ma anche le forme “dal basso”).
Tutto ciò abbisogna di una nuova “etica della condivisione con gli altri” (Arendt) e soprattutto in fasi di trasformazione occorre, come direbbe Weber, una “qualità etica specialissima e forte” (qui etica sta per: come devo vivere con gli altri).
Il teorico della progettazione partecipata, Jonh Forester, scriveva: “Non chiedere qual è il problema, ma chiedi qual è la storia. Solo così scoprirai qual’è davvero il problema”.
Questo ci occorre, sapendo che non siamo oramai ciechi ma abbiamo solo gli occhi chiusi che dobbiamo imparare ad aprire, seppur lentamente.
Immaginare il futuro non è cosa da poco, ma neanche frequente. Se poi lo si fa insieme!
Facciamo uno sforzo.

Emanuele Amoruso