05/04/2006

Giovani difficili o criminali? Di Emanuele Amoruso


Le notizie, sulla presenza nelle varie strutture di “accoglienza”, di decine di minori concittadini oggetto di provvedimenti da parte dell’Autorità giudiziaria minorile, determinano reazioni emotivamente preoccupate e impongono alcune domande.
Distinguiamo due aspetti: le caratteristiche, la consistenza, le cause – soggettive e oggettive - dei fenomeni e il modo in cui agisce-reagisce la “società” (le persone comuni, l’opinione pubblica ma anche le sue istituzioni).
La delinquenza minorile è tutt’altro che un problema marginale.
Stando ai numeri è più diffusa nel Mezzogiorno, considerando anche che nel Nord e Centro Italia vi è una componente di oltre il 70% di minori “stranieri”.
Altro elemento da sottolineare riguarda il tipo di reati: per la maggior parte dei casi si tratta di reati contro il patrimonio ( furti – rapine – estorsioni). Parliamo di crimine predatorio , prevalente rispetto a quelli contro la persona o lo spaccio di stupefacenti.
Si abbassa inoltre l’età media di ingresso nel circuito del crimine.
Da ciò una prima reazione: in una recente ricerca oltre il 40% degli intervistati si dichiara favorevole a portare da 14 a 12 anni l’età minima di punibilità.
Tra le cause è oramai diffusa, tra gli operatori della sicurezza, della legalità, dei servizi sociali, degli studiosi, la convinzione che la stessa “società” produca in qualche modo la “devianza” come “effetto non desiderato” delle strutture di “potere”, dei diffusi fenomeni di criminalità “acquistiva” dei “colletti bianchi”, di condizioni socio-culturali di marginalizzazione e di esclusione.
Tra questi non vanno taciuti i percorsi di vita legati a subculture paracriminali che determinano una vera e propria appartenenza ad una sorta di “comunità di destino” dalla quale non si vuole uscire e che accentua il suo carattere di identità attraverso la pratica sociale della illegalità. In ciò operano modelli di riferimento che non si cerca di contrastare nella vita di tutti i giorni e che, spesso subendoli, lascia senza “sanzione” sociale molti comportamenti.
Così, e siamo alla seconda questione, si sviluppano atteggiamenti o particolarmente severi, che esaltano la funzione “punitiva” delle strutture di limitazione della libertà personale ( tra queste anche la recente “tolleranza zero” del governo Blair in Gran Bretagna), o particolarmente indulgenziali ( tra queste prevale l’idea dell’infanzia-adolescenza “ferita” , vittima sostanzialmente del mondo adulto).
Si risponde sotto la pressione dell’opinione pubblica, piuttosto che “aprirsi” alla ricerca di percorsi che spezzino il “circuito” della devianza.
Prendiamo la scuola e le politiche sociali volte alla “rieducazione”.
Tra gli psicologi sociali e quelli dell’età evolutiva si è affermata la convinzione che intervenire nella primissima età scolare sui soggetti portatori di “atteggiamenti aggressivi e di sfida delle regole” può dare risultati di lungo periodo; interventi inutili quando si è già “devianti”. L’aggresvità nell’infanzia è “letta” come uno dei migliori fattori predittivi della violenza “verso le norme” della futura età adolescenziale e adulta. In questa prima scolarizzazione si possono insegnare strategie cognitive e sviluppare il linguaggio che serviranno per tutti i processi di individualizzazione, identità, ruolo adulto etc.
Vi sono, inoltre, tante esperienze genericamente “non riparatorie” che superano la tradizionale impostazione dei riformatori (il “child savers” caritatevole, rieducativo e fatto di “buoni sentimenti” datato e obsoleto) per trovare modalità atte a “rimettere in gioco” le persone a rischio in progetti di ricostruzione sociale di legami e progetti di vita ( a Cosenza, p.e. , la coop “invasioni” ha affidato giovani a rischio ad un gruppo teatrale per svolgervi le funzioni di tecnici di scena, dei suoni, etc).
Vi è un altro elemento che “produce” devianza e che è sempre dimenticato nelle politiche sociali e urbane. Si tratta del micro disordine sociale e ambientale, diffuso non solo nelle periferie, dell’ambiente urbano dove ognuno di noi esperimenta la propria vita quotidiana.
Un buon ambiente urbano dà un importante senso di sicurezza e stabilisce tra sé e il mondo una relazione armoniosa, diversamente da chi avendo smarrito l’orientamento sociale viene preso dallo smarrimento. Costui reagisce sviluppando ogni sorta di pratica sociale che possa ridargli un “senso” ed un ruolo. Ovviamente in soggetti già in circuiti subculturali ciò passa attraverso pratiche devianti e fortemente predatorie.
Nel prossimo mese di maggio a Parigi, anche a seguito dei recenti fenomeni di “sovversione” delle banlieau, si terrà un convegno internazionale che affronta i temi della condizione giovanile partendo dal quesito: devianti o indipendenti? con discussioni anche su “come lasciare la famiglia e costruirne una propria, come guadagnarsi da vivere, come rapportarsi alla politica e all’impegno”.
Questi sono i temi che alla fine interessano un adolescente, e nella società dell’ncertezza e dell’insicurezza le declinazioni possibili diventano “cretaive”, infinite e anche “devianti”.

Brindisi, 4 aprile 2006

Emanuele Amoruso