28/09/2006
Questione sociale: questione culturale. Di Emanuele Amoruso
Le recenti vicende, riportate dalle cronache, di aggressioni fisiche ai danni di dirigenti del Comune di Brindisi e la notizia delle oltre 2200 domande di richiesta di contributo economico da parte di famiglie disagiate riportano all’attenzione la “questione sociale”. Questione che parla oramai il linguaggio della condizione di marginalità di nuclei familiari e di singoli ma anche delle politiche sociali sempre più in crisi di missione e di efficacia.
Si compiono, spesso, diversi errori sia nei commenti come nel corso dei “processi decisionali” per la formazione delle politiche pubbliche: si distingue poco tra gli effetti e le cause e l’attenzione, e l’eventuale agire, è posta solo sugli epifenomeni dimenticando quanto tutto sia in relazione con diffusi e continui microprocessi che interessano una base sociale molto ampia. Inoltre, altro errore di “mentalità”, si guarda raramente ai processi sociali come a mondi in continua trasformazione che mutano le cosiddette “pratiche quotidiane” di tutti i soggetti e, fatto importantissimo, i significati, e quindi la vera cultura, che ognuno di noi attribuisce alla realta esterna e intrapsichica.
Quindi la “crisi” posta dalle diffuse e varie patologie sociali e prima di tutto di carattere cognitivo e ciò riguarda sostanzialmente la dimensione politica che “ragiona” con categorie, e conseguenti strumenti e metodi, non in sintonia con le dinamiche complesse del presente, in una approccio sempre emergenziale e sin troppo legato alla temporaneità dei “mandati” politici stessi.
Certo, da qualche anno anche a seguito di riforme significative, si richiama la responsabilità, sulla qualità delle politiche, anche dei “tecnici”. Ma costoro, anche a causa di meccanismi socio-culturali piuttosto tipici del Mezzogiorno, rispondono poco al “cittadino-utente” e ancora molto alla sfera politica propriamente detta.
Per questo il commento ai fatti di cronaca innanzi ricordati porta a diversi approcci riflessivi.
1) Innanzitutto il rapporto tra società e individuo: pervasività e vulnerabilità. Nei processi di trasformazione degli ultimi decenni, con il passaggio significativo dalla cosidetta epoca fordista al post moderno, si è sostituito il collante sociale: se prima era il lavoro a tenere insieme la società oggi è la società che tiene insieme gli individui. Da ciò l’importanza della mediazione societaria per ogni individuo che, soggetto alle forti dinamiche di differenziazione, deve trovare socialmente le sue forme per esperire e rappresentare le relazioni sociali. Tanti individui, in parte segnati da contesti e subculture originarie ma anche di recente precarizzazione, si ritrovano in una situazione di vulnerabilità, cioè in uno spazio sociale di instabilità.
Si è ritenuto, dagli anni ’70 sino ad un decennio addietro, che le situazioni di “marginalità” fossero riassorbibili all’interno di una ipotesi di sviluppo economico e di welfare riformistico.
Nonostante nello scorso scorcio di secolo ci siano stati potenti sistemi “livellatori”, quali l’istruzione, il sistema fiscale e lo stesso welfare, si deve constatare come permangano forti differenze nel campo delle opportunità che si scaricano sullo stesso “status di cittadinanza”, inteso non solo come dirittti conferiti ad ogni membro del corpo sociale ma come posizionamento rispetto allo stesso sistema delle “chanches”.
Soggetti con precarie risorse disponibili, legati ad una sorta di “comunità di destino” marginale, deboli nel “capitale sociale e relazionale”, spesso provenienti da subculture dell’illegalità, divengono veri e propri “professionisti dell’assistenza”. Da ciò, attraverso percorsi di progressiva “desaffiliazione” dal legame sociale, la spirale verso esiti anche di auto-marginalità sociale e culturale, in una parola verso l’esclusione sociale. Come già mostrato nella mia ricerca del novembre 2001 (Oltre le marginalità: Conferenza cittadina sull’emarginazione) questi processi-percorsi sono in atto da diversi anni anche nella nostra città e mai si è posto un diverso modo di “impostare” le politiche sociali.
2) Vi è poi il rapporto tra individuo e “cosa pubblica”: deligittimazione, rappresentanza e partecipazione.
Non occorre qui ricordare quanta poca credibilità abbiano le istituzioni pubbliche, la cui crisi di legittimità e autorevolezza è sottoposta ad un duplice e articolato meccanismo di erosione: dall’interno – a causa di meccanismi di autoreferenzialità della “struttura”, intesa nella componente burocratica ma anche politica – e dall’esterno sotto la pressione della individualizzazione e differenziazione che porta all’autorappresentazione - anche a seguito della “crisi” delle “mediazioni” sociali collettive conosciute dal dopoguerra sino agli anni ’90.
Delegittimazione che riguarda il ruolo, i comportamenti, l’agire (il non agire) nella dimensione del “bene pubblico”, ma anche la competenza che l’apparato istituzionale dovrebbe rappresentare. Il circuito di bisogni- richiesta-risposta anziché modellarsi sul principio di cittadinanza, e quindi di risposta “pubblica” a partire dal cittadino-utente, si è strutturato sul modello dell’appartenenza familistico-amicale-partitica, e quindi a partire dal cittadino-suddito. Tutto ciò in una spirale “degenerata” di vantaggio dato dalla “cattiva reputazione” che ha portato ad acuire situazioni di ingiustizia umana , ancor prima che re-distributiva.
A tutto ciò non c’è che una risposta: favorire la partecipazione e la legittima rappresentanza di tutti coloro che “hanno a cuore” la questione sociale. Primi tra questi tutte le varie organizzazioni di volontariato e del terzo settore.
3) Per questo, per quanto ci si possa girare attorno alla ricerca di soluzioni temporanee che mettano in “sicurezza” funzionari e strutture pubbliche, il tema vero è sempre quello delle politiche nella complessità del presente: riunificare i saperi, ricomporre la politica.
Serve ripetere cose basilari? Che bisogna passare dalle politiche riparatorie a politiche di promozione della dignità umana? Che i “piani di zona” devono poter iniziare a funzionare? Che bisogna strutturare un sistema di conoscenza empirico-teorica della società e dei fenomeni in atto che riguardano persone in carne viva e non le strutture e le burocrazie? Che occorre fare “lavoro di rete” tra quanti – con compiti e denaro pubblico – si occupano di questioni sociali? Che occorre ridisegnare i servizi alla persona e alle famiglie “rigenerando” il contesto socio culturale? Che, in epoca di flessibilità e della dissociazione su scala globale tra individui in quanto persone e individui in quanto lavoratori-consumatori con la conseguente irrilevanza di “molti”, i “rischi” per la coesione sociale sono molto elevati e che una società molto differenziata – per status, per chanches, per rappresentazione – non può basarsi sulla “riproduzione naturale” ma devo molto investire per riaffermare il legame sociale, non più garantito dallo spontaneo movimento solidaristico e di riconoscimento, ma sempre più risultato del sistema “pattizio”? Che il prossimo “giro di vite” riguarderà, e già riguarda, il cosidetto ceto medio?
La marginalità, che sale talvolta agli onori della cronaca, anche giudiziaria, non è qualcosa con cui si nasce: essa è l’esito di un percorso, mai breve e spesso modificabile. Ci sono soggetti e nuclei familiari che già sono alla 3° generazione come utenti dei vari servizi. Molti altri già da tempo in mezzo al guado.
E noi cosa facciamo? Aspettiamo gli echi che rimbalzano dalla cronaca per muoverci? Si vadano a vedere gli iscritti agli elenchi della Croce rossa, si vada a chiedere alla Caritas, si stia più dentro la società anziché in uffici scomodi e provvisori.
L’indice di dipendenza – anziani più minori rispetto alle componenti adulte della società – cresce con una percentuale di anziani che supera oramai i minori. Le situazioni di disagio e/o vulenerabilità sociale sono sempre più multiproblematiche: e si continuano ancora a dare “sussidi”? E se le situazioni dei soggetti sono multiproblematiche perché non si comincia a ragionare intorno alle varie politiche (sociali, urbanistiche, economiche, culturali) come dinnanzi ad un'unica questione che obbliga a riconsiderarle come collegate e che solo la “pigrizia” intellettuale delle varie “discipline” continua a farci tenere slegate?
La questione sociale è una questione culturale nel senso pieno del termine: si tratta di dare significati aderenti alla contemporaneità, non separando i vari ambiti (accade con la grande attenzione alla questione “ambientale” che viene però vissuta come esclusiva e “fondante” ogni altra questione) ma cercando di ricomporli in una visione condivisa che consideri la cittadinanza sociale come vero segno distintivo del riconoscimento della dignità di ognuno.
Per questo bisogna ricreare continuamente “ambiente sociale e ambiente culturale” (vedasi: Piano di azione locale, in Agenda 21 -Brindisi-2003).
Emanuele Amoruso
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