17/11/2012
La Puglia nella cronaca e nella cartografia ottomana. Di Guido Giampietro
È possibile che la cronaca della conquista (cruenta) d’una terra possa ingenerare nel lettore una specie di sindrome di Stoccolma, cioè un anomalo sentimento d’ammirazione nei riguardi di chi, quella storia, ha scritto? E questo anche quando il lettore è un lontano discendente della stessa gente che quella violenza subì? Dico senz’altro di sì, e non solo perché da quei fatti sono trascorsi oltre cinque secoli o perché questo impone la legge evangelica del perdono, ma anche per una ragione squisitamente letteraria.
Come non rimanere ammaliati, infatti, da questa terzina che descrive la Puglia (la “Terra Longa” degli Ottomani): “La sua campagna pare in primavera / un giardino dell’Eden, / dal mare la sua riva è un tesoro che scorre …”? O da questo enfatico riferimento a Otranto: “… biasimare non si potrebbe chi l’abita; se vuoi trascorrere vita serena, vai ad abitare là”? È questo linguaggio poetico che riesce a camuffare le atrocità commesse dai turchi durante le scorrerie in Puglia e, in specie, durante l’eccidio di Otranto, prologo al più ambizioso progetto della conquista di Roma e di tutto l’Occidente.
L’autore dello scritto è Semseddin Ahmed Ibn Kemal, cronista al seguito della spedizione comandata da Ghedik Ahmed Pascià. La sua “Cronaca” è inserita nelle “Storie della Casa di Osman” scritte su commissione del sultano Bayezid II “il Giusto”, figlio di Maometto II. La fonte, tradotta da Asim Tanis su sollecitazione di Maria Corti, è stata dalla stessa pubblicata nel 1990, presso Scheiwiller a Milano, nel volumetto “Otranto allo specchio”.
Questa storia colpisce perché Ibn Kemal ˗ un giornalista che oggi definiremmo “embedded” ˗ ha scritto, più che una cronaca, un vero poema epico ricco di immagini naturalistiche e di iperbole, alla maniera dei racconti de “Le Mille e una notte”. E proprio su queste descrizioni fabulose del paesaggio pugliese il committente contava perché venissero esaltate le sue gesta così da tramandarle ai posteri.
Dopo aver parlato degli scopi dell’impresa (Maometto II ˗ al-Fatih, il Conquistatore ˗ aveva chiesto ad Ahmed Pascià di annettere all’Islam la Puglia “scacciandone gli infedeli”) così Ibn Kemal parla del teatro della battaglia: “La Puglia è un grande paese tra quelli che si affacciano sul mare; essa è descritta e nota ampiamente; il suo esercito dal cattivo costume è rinomato e noto per numero e ottimo addestramento; poiché il Mediterraneo costituisce la maggior parte delle sue frontiere, essa è annoverata tra le isole; i nemici sono riusciti a darle buon sviluppo e perciò questa regione è prospera e i suoi prodotti sono abbondanti”.
Ma Ibn Kemal deve fare il mestiere per cui è stato pagato e lo fa mitizzando il racconto, trasformando la realtà in miraggio pur di enfatizzare l’impresa dei turchi. Così, infatti, descrive la potente flotta ottomana: “Navi grandissime che a vederle sembravano grandi un mondo, tirate le ancore […], si diressero verso la Puglia; avanzarono con le vele che, come bandiere rischiaratrici delle tenebre, impedendo la penetrazione dei raggi del sole, coprirono la volta del cielo; con le navi sterminate, coperte di pece, il mare Mediterraneo prese l’aspetto di una pianura marina; con le punte delle lance verdeggianti e le bandiere, il mare assomigliò a una terraferma. […] I remi coprirono da ambedue i lati la superficie del mare, quella flotta assomigliava a migliaia di giganti; il mare infuriato […] aveva l’apparenza di un cammello ubriaco dalla bocca spumeggiante. Con la pura brezza mattutina, divenuta la messaggera della vittoria, navigarono per un po’ di tempo. Giunti in Puglia vi entrarono e saccheggiarono i paesi incontrati”.
E come si fa a prendersela col cronista quando, qualche pagina dopo, descrive l’ambiente bucolico che gli viene incontro? “[Dalla Puglia], in cui ogni angolo è pieno d’oro e d’argento […], trassero tanti schiavi e schiave i quali […] avevano visi più puliti delle acque e occhi fonti di bellezza, e di cui era impossibile stimare il valore. Se di tutto questo ottenuto si togliesse un quarantesimo, diventerebbe un tesoro per i mendicanti di tutto il mondo. Ne presero tanto che ad esprimere e a scrivere non resisterebbero la lingua e le dita. Nel luogo soprannominato c’erano molte opere rare, paesi, città grandi ed ognuno aveva nei suoi dintorni una campagna prospera e una infinità di villaggi”.
E dopo l’idilliaca descrizione, ecco la vittima predestinata: Otranto. “C’era una città che in confronto alle altre era come la luna piena tra le stelle; aveva una campagna verdissima […] piena di gente e, di fronte alle […] altre città, sembrava la notte della nascita di Maometto tra le altre notti. Il suo nome è Otranto … Ahmed Pascià […] raggiunse quella fortezza dalle mura solide; truppe numerosissime quanto le stelle si gettarono, come fanno le cicale sui campi di grano, sulla campagna nei dintorni della città, dintorni che parevano un giardino di alberi pieni di frutta e di foglie … Nemmeno nelle notti, il chiaro di luna, dando colore alla frutta non ancora matura sugli alberi, poteva farne l’aspetto lucente e neppure l’alba poteva pulire il viso ai fiori freschi …”.
Sorvolando sull’eccidio della città e il martirio degli ottocento cristiani (né il lirismo di Ibn Kemal, né quello degli altri storici ufficiali ottomani ˗ gli shahnameci ˗ potrebbe infatti cancellare la macchia di quella vittoria!) rimane da chiedersi su quali ausili alla navigazione marittima (mappe, carte nautiche, atlanti, portolani, insulari, ecc.) i turchi potessero contare per rendere fruttuose le loro scorrerie in tutto il bacino del Mediterraneo (e non solo!). Al riguardo c’è da dire che ci troviamo in presenza d’una cartografia che, per bellezza pittorica, si discosta notevolmente dai canoni della scienza geografica fino a quel tempo dominante. Non fosse altro perché, a seguito del richiamo a Istanbul di artisti dalla Persia e dall’Asia centrale, a corte si era venuta formando una scuola miniaturistica che, oltre all’illustrazione dei libri, si occupava della rappresentazione ˗ ora fantasiosa, ora ricca di dettagli ˗ di coste e vedute di città.
Tra tutti i cartografi del XV secolo particolare importanza riveste il Piri Reis, nato a Gallipoli (Gelibolu) sui Dardanelli. Insieme allo zio Kemal Rais ˗ il famoso Camalicchio delle cronache popolari ˗ combatté da corsaro nel Mediterraneo e fu durante questa attività che eseguì disegni di coste e porti annotandovi utili notizie relative ai punti di orientamento ma anche al commercio. Nel 1485 lo zio entrò al servizio della marina ottomana e nel 1499, zio e nipote, furono nominati ammiragli (qapudan) della Sublime Porta. L’opera fondamentale di Piri Reis è “Il libro del mare” (Kitab-ï Bahriyye) ˗ pubblicato in Europa solo nel 1919 ˗ che lo storico tedesco Eduard Sachau definì “un’opera cartografica con annesso testo descrittivo, che, a causa della sua vasta ampiezza e della sua esattezza nei dettagli, merita di essere annoverata tra i monumenti più significativi della letteratura turca”.
Cinque sono le carte che descrivono le coste pugliesi, dalle isole Tremiti al versante orientale del Gargano, a quello meridionale (con l’indicazione di “Provincia di Puglia” o “Vilayet-i Puliye”), fino alle due carte dedicate alla Terra di Bari. Quattro, invece, sono quelle riguardanti le coste salentine e queste sono le più belle e accurate, probabilmente per l’interesse che la marineria ottomana aveva avuto da sempre per queste coste o perché furono quelle più toccate nei numerosi viaggi di Piri Reis e dello zio. Su tutte le carte, oltre all’indicazione dei centri urbani, compaiono le torri di guardia edificate o sui promontori o nei pressi di spiagge dove fosse facile effettuare uno sbarco o nelle vicinanze di fiumi che consentissero di fare “l’acquata”, cioè il rifornimento d’acqua dolce.
È dunque in questo modo che ammiragli e cartografi ottomani hanno raccontato quel mare di Puglia che nei secoli è stato solcato da eroi mitologici e da profughi offesi dalla Storia; da eserciti regolari e da ciurme di corsari barbareschi. Oltre che da Crociati e mercanti, monaci e infedeli, pellegrini e furfanti. Un mare che però ancora oggi permette alle genti d’Oriente e d’Occidente d’incontrarsi e conoscersi.
Guido Giampietro
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