23/09/2007
Colonne, identità, futuro. Di Emanuele Amoruso
Simbolo, tradizione, identità, rinascimento, città, comunità di destino: intorno a questi temi si sviluppa il discorso pubblico “provocato” dalla richiesta di restituzione della colonna formulata alla città di Lecce.
Bene ha fatto il Sindaco Mennitti a precisare che Brindisi non rivendica “lastroni di marmo, ma vuole ricucire la sua storia”.
I temi sopra elencati pongono domande declinate con le retoriche del caso: i simboli, e l’insieme di identità tradizionale, divengono spartiacque per ritrovare “senso” nello smarrimento del presente; ciò che si chiama “armatura culturale” di un territorio, la sua Storia, diviene, come per gli arrampicatori, punto cui aggrapparsi per mettere “piede fermo” e ripartire (senza dimenticare che la stessa storia è piena di contraddizioni).
La domande può essere altra? Se oggi guardiamo il mondo non più dalla sommità della tromba delle scale ma mentre stiamo in essa precipitando (o per dirla con McLuhan dallo specchietto retrovisore) come possiamo ritrovare identità, che diverrebbe “risorsa” su cui far leva?
Oltre che attori razionali, quando a volte succede, gli individui modificano i significati divenendo “utenti di simboli” che nella costruzione di senso plasmano la stessa azione, sia razionale che comunicativa, in un processo continuo in cui la struttura e le dinamiche sociali, da una parte, e la cultura, dall’altro, si influenzano reciprocamente.
Tutto avviene nella “lotta” tra ragione e sentimenti, tra ciò che si può fare e ciò che si vorrebbe fare.
I simboli , per essere tali, devono continuamente essere “ricostruiti” perché abbiano la forza di durare nel tempo: ciò attiene a quanto sia socialmente sentito perché con esso si devono combattere altri simboli, e quindi altre idee.
La dimensione simbolica e l’identità (mai dati una volta per tutte ma sempre rigenerate) favoriscono sentimenti di appartenenza territoriale, di forme di auto riconoscibilità ma anche di auto rappresentazione. E, da questo punto di vista, forte, anche se variamente diffusa, è l’auto rappresentazione descritta da Mennitti come “assuefazione alla filosofia del destino cinico e baro”.
Simboli e identità non sono dunque estranei alla vita sociale, all’esperienza quotidiana e condizionano la stessa attività sociale: per questo a volte divengono “stigma” di una comunità. Stigma che non sempre è positivo, soprattutto agli occhi degli “altri”: basti pensare alla stigmatizzazione degli ultimi 50 anni tra industrializzazione imposta, colonizzazione, rischio ambientale, Marlboro City e … luogo di inenarrabili “porcherie”.
Ci si domanda: nelle complesse dinamiche che mettono insieme (sui diversi piani del sentire e dello scegliere) simboli, tradizione, storia e il bisogno di guardare avanti come “fare” identità per il rinascimento? Come coniugare, far convivere se possibile, la tradizione con l’innovazione?
Entrare nel passato con i lucciconi agli occhi può scaldare una vera “alba” oppure ci inganna nell’autunno della speranza?
Il disagio forte che non in tanti, purtroppo, sentono di fronte allo stato di cose presente non è forse solo la spia che preannuncia la “fine di una storia” che non è possibile più rivivere?
Rischiamo di essere “prèfiche” che soccorrono per elaborare il lutto, mentre c’è bisogno di “visioni” su cui tentare di costruire apparati cognitivi diffusi che sappiano interrogare la complessità del divenire contemporaneo, valutando e sperimentando ipotesi progettuali non episodiche, né parziali, né tantomeno “cavate dal cilindro”?
Essere, appartenere, ricostruire una comunità di destino è processo che attiene non solo alla volontà (che già sarebbe alto grado di consapevolezza) ma alla definizione di procedure e mezzi per esercitare concretamente la più diffusa partecipazione ad ogni genere e grado di decisioni che riguardano il bene comune.
Oggi, dentro la costruzione di “senso” che si vuole attivare, non si può prescindere da una dato che è dentro la forma attuale del postmoderno: la conoscenza è divenuta essa stessa una forma d’azione, la modifica e ne è modificata.
Nulla accade più intorno a noi come puro “fatto” né si presenta come puro “oggetto”. Gli stessi agire razionale rispetto allo scopo, quello rispetto ai valori, quello rispetto agli affetti e quello tradizionale, sono indissolubilmente intrecciati e si incorporano in intenzioni, significati, orientamenti, decisioni, spiriti animali vari. Cade la distinzione netta tra sociale e naturale e per fortuna non vi è più alcun pensiero unico a dominare la realtà.
Nell’epoca dell’incertezza (rispetto al domani ma anche all’oggi) cade il dogma dell’ “o….o” e dobbiamo prendere confidenza con la prassi dell’ “e….e”.
Che la “colonna” (culmine) non sia di quelle “manzoniane”, ma inizio per una fase “creativa” nei metodi, nei contenuti, nelle prassi per liberare le energie sociali, anche quelle più propriamente comunitarie e solidaristiche, perché tutte possano vivere la conoscenza-azione del contemporaneo.
Emanuele Amoruso
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