08/11/2007

Cultura e sviluppo. Di Emanuele Amoruso


1) Perché si parla di cultura per lo sviluppo? Quale sviluppo, quale economia, quale cultura, che ancora non ci sono?
Se ne parla da qualche anno ed in Europa ha trovato espressione formale nel Trattato di Maastricht (1992) che ritiene la “clausola culturale” indispensabile per permettere non solo la coesione sociale e l’unione dei popoli ma soprattutto il loro “sviluppo”.
Il fondamento di questa consapevolezza è dato dalle complesse trasformazioni socio economiche degli ultimi decenni.

Due grandi fenomeni stanno caratterizzando la nostra epoca: la fine del “fordismo” e la rivoluzione della ICT (information and communication tecnology).
L’epoca fordista separava l’economia dalla società lasciando i territori più passivi e adattivi agli stessi processi di sviluppo.
Nei territori, come per Brindisi, si calavano dall’alto insediamenti produttivi senza attenzione alcuna alle qualità del contesto.
La ICT ha favorito flussi informativi inimmaginabili che diffondono valori e pratiche sociali che stanno cambiando radicalmente la stessa esperienza umana (dal pensare al produrre, dal consumare all’amministrare, dal comunicare al vivere, dal fare la guerra al morire).
Tutto ciò, con la globalizzazione e mobilità di persone, merci e soprattutto conoscenza, produce dinamiche che condizionano i territori.
Da noi, oltre agli effetti perversi dell’epoca fordista quali i danni ambientali e sulla salute e la forte “pressione” esercitata sui decisori pubblici, vi è stata la crisi delle “produzioni mature” da delocalizzare ma anche l’avvio di una forte concorrenza in settori importanti dell’economia locale.

Avvertiamo però la “crisi”, e non sarebbe corretto dimenticarlo, anche per quanto ha contato l’economia illegale dei decenni scorsi. Ciò ha agito, ed è l'effetto più importante, nella testa di molti favorendo pratiche sociali, ma anche imprenditoriali, che hanno condizionato anche i meccanismi del “consenso politico”.
Non solo dall’esterno venivano i “predoni” (rider) ma va sottolineato quanto il modo di “stare al mondo” di una collettività informi di sé la stessa qualità della vita comunitaria.

Ora, ricevendo dal passato prossimo diversi meccanismi socio-politici che determinano una “riproduzione sociale” distorta e irregolare (con ancora la pressione decisiva di “poteri” criptici che influiscono sulla stessa “mobilità” orizzontale e verticale), diviene “ingarbugliato” comprendere le dinamiche di “nuova consapevolezza” e produrre scelte.

Oggi nel mutato scenario si richiede ai territori e agli uomini di organizzarsi con autonomia per “vedere e toccare” il futuro, e occorrono qualità assolutamente nuove e speciali.
Ai singoli tocca di sentirsi parte di una pluralità di valori e bisogni, alle forme istituzionalizzate della stessa società (istituzioni, enti funzionali, corpi intermedi, operatori economici, sociali e culturali, associazionismo vario ecc) spetta di avviare e condurre percorsi di sviluppo condivisi che mobilitino risorse, competenze e innovazioni locali.

Accade che durante i grandi cambiamenti le categorie e le parole usate per comprendere gli accadimenti divengano vecchie e bisogna cercarne di nuove, sintonizzandosi sui paradigmi che chiariscano l’esistente.
Questa è la consapevolezza da cercare e che comincia a diffondersi visto che riusciamo a chiamare per nome alcuni elementi negativi ereditati: danni ambientali, fuga dei giovani, malgoverno dei fattori del bene comune, vaste sacche di degrado urbano e sociale.
Consapevolezza che anima (come il confronto meritoriamente aperto sul "Quotidiano", conferma) l “arena pubblica” in un pluralismo di posizioni che è segno di una qualche vitalità.
D’altra parte dipende solo dai territori il dover svolgere questo ruolo liberandosi dai determinismi geografici e storici (va ripensata la cosiddetta questione delle “vocazioni” territoriali in una economia globalizzata ) e dalle scelte del “centro”.
Per questo la contrapposizione tra “industrialismo” e “nuovo modello di sviluppo” rischia di essere fuorviante: tutto oramai si deve fare nella “sostenibilità” che non è termine indefinito ma sostanziato da norme, procedure, sensibilità e infine serrato confronto su come si salvaguardano i “beni comuni” (anch’essi da cominciare a chiamare per nome).
Certo, si tratta di porre termine al “capitalismo politico” (uso di beni e risorse comuni a fini privatistici) ma non si può pensare che indistintamente tutte le modalità di creazione di ricchezza e lavoro presenti siano “acqua sporca”. Finiremmo con il buttar via anche il “bambino”.

2) Cosa occorre per fare sviluppo nella nuova società ed economia della conoscenza?
Interi territori e città (questo è il “paradosso del localismo” in una epoca globale) hanno sviluppato una forte concorrenza per costruire con proprie risorse un futuro possibile.
Si sono riorientate le strategie territoriali secondo una suggestiva formula sintetizzata con il termine di “Regione C”.
In queste, e ne abbiamo anche di vicine, si coniugano istituzioni che creano “conoscenza”, formando personale qualificato e altamente adattabile, si attraggono organizzazioni con un orientamente “creativo”, si offrono “opportunità culturali” non standardizzate e si attivano processi di “comunicazione sociale” che veicolano soprattutto idee e tecniche innovative.
I contesti sociali divengono milieau innovateur ricercando e sperimentando in modo originale i processi che coniugano le “pratiche sociali”, i “processi di governo” e le “culture di progetto”, senza prescindere mai da ognuno dei termini appena indicati.
Sto descrivendo “processi” che nella società della conoscenza sono divenuti importanti quanto i contenuti stessi perché è dalla continua evoluzione di questi (dei processi) che dipende il valore stesso dei “prodotti”. E qui stiamo parlando del prodotto più complesso, dinamico e meno prevedibile che è il miglioramento della qualità della vita delle persone, le loro speranze, il rispetto della dignità e culture, poter progettare la propria esistenza individuale e comunitaria, il dare un futuro ai giovani (basti pensare alla loro crisi di “progetto di vita”).
Organizzare al meglio i processi finalizzati al tema delle trasformazioni urbane, della cultura, del capitale umano diviene la prospettiva incoraggiante per un disegno innovativo della forma sociale e della stessa vitalità territoriale.
Si deve contare solo sulle proprie capacità. Lo sviluppo sociale è principalmente legato al valore del capitale umano e la prima risorsa dei territori sono le persone ( e non il P.I.L.).
Occorre promuoverne lo sviluppo, lo spirito d’iniziativa: ma la mobilitazione avviene se si ricostruisce il “capitale sociale” e si ripristina la “fiducia verticale” verso le istituzioni (compromessa anche nel Paese).
Mondi prossimi ma anche lontani, quali l’India, stanno dimostrando nei fatti che sempre meno sono decisivi fattori quali le risorse (si pensa solo a quelle finanziarie) ma le capabilities che sanno trasformarle in funzioni valide attraverso concrete facoltà di scelta (si analizzi da noi il “fallimento” del “pacchetto localizzativo” e dei programmi Urban e Protagonist che non sono stati leve per “nuova economia” ma solo risorse da “gestire”).
Le capacità, ampio raggio di qualità personali e interpersonali ( abilità, esperienza, creatività, giudizio, riflessività, socializzazione, cooperazione, impegno, comunicazione, espressione, capitale sociale), consentono a ciascuno di costruire un proprio orizzonte nella consapevolezza della appartenenza ad una collettività. A ciò è decisiva la qualità dell’istruzione che deve essere garantita a tutti e , massimamente, l’istruzione universitaria che “vede” il futuro dei lavori.

Un territorio che “non si conosce” non va lontano e perciò si devono approntare strumenti di conoscenza permanenti dei fenomeni, siano economici, sociali e/o culturali.
Da ciò la necessità che si diffondano apparati cognitivi comuni a persone che operano in ambiti anche molto diversi. Questa diffusione, opportunamente collegata, porta a vere e proprie “mappe cognitive” che, come patrimonio, consentono la formazione (che attraversa istituzioni, organizzazioni e società) della cosiddetta “coalizione per lo sviluppo” vera e propria testa di ponte verso l’innovazione e il cambiamento.
Questa coalizione, è oramai accertato in tutti i territori dinamici, si giova della cosiddetta “comunità o cittadinanza competente” che rappresenta quella parte di società, in qualsiasi posto diffusa, che è attenta, sensibile alle dinamiche di trasformazione. Questa parte di società è in grado, prima delle stesse organizzazioni e istituzioni, di cogliere i bisogni materiali ed immateriali, assimila il nuovo che avanza nel pluralismo valoriale e crea dinamiche socio-economiche che mobilitano intelligenza e creatività.

C’è un solo luogo dove questo incontro tra istituzioni e società si vivifica virtuosamente: è nella stessa forma di società aperta e democratica che conosciamo come modalità della riproduzione e della convivenza sociale, e quindi è in tutte le modalità e procedure che la partecipazione dal basso e dall’alto possono immaginare. Sono oramai tanti i modelli e le buone pratiche del “community planning” (anche a New York !) in cui la componente “esperta” è la stessa comunità in un rapporto originale tra bene pubblico, interessi collettivi e conoscenza tecnica.
Partecipazione non è vociante assemblearismo, come alcuni credono e altri temono, ma razionale modalità per valorizzare il circuito della informazione-conoscenza-forme espressive-processi decisionali, restando distinti ruoli e prerogative che riguardano le istituzioni e la società.
Come si fa altrimenti a pensare ad una “visione” del futuro se non si mobilita la collettività? Di questa visione deve essere fatto il processo di cambiamento attraverso la sua stessa complessa rappresentazione. Pensare al mondo dal punto di vista della sua trasformazione è quanto bisogna reimparare per non essere solo amministratori, seppur diligenti ed onesti, dell’esistente.

3) Dare alla Cultura un ruolo strategico per lo sviluppo significa in primo luogo riconsiderare i molteplici, ambivalenti e anche contradditori significati che il termine sottende.
Cultura si coniuga con istruzione, spettacolo, arti, impresa, tecnica, legalità, politica, civismo, cittadinanza, ambiente, materiale, religione, laicità, tradizione, territori, beni culturali, economia, mode, stili di vita. Cultura si coniuga con “alta” e di “massa”. Appunto, si coniuga con tutte queste “forme”, ma essa è solo e soltanto “interpretazione” e “significati” che attribuiamo.
A quale cultura ci riferiamo quando seguiamo un concerto, leggiamo un libro, partecipiamo ad un corteo, scattiamo uno foto, passeggiamo o tifiamo per la squadra del cuore?
Quando mangiamo una frisella soddisfiamo un bisogno naturale o facciamo una scelta culturale?
Ora questo “discorso” trova un luogo privilegiato dove si formano questi significati (idee, rappresentazioni sociali, diffusione delle conoscenze, valori, stili di vita, interpretazioni e sperimentazioni): questa è la città. Questi significati orientano l’agire sociale nel contesto di vita che si condivide o meno: a tali significati ci riferiamo e con essi interagiamo con gli altri.
Ovviamente ognuno contribuisce a questa elaborazione e produce un incessante trasformazione della cultura di riferimento. Tutto ciò non avviene in un “laboratorio” freddo e asettico ma nella carne viva di sogni e paure, prove e fughe. Ma l’individuo è solo di fronte a “interpretazioni dominanti” così da faticare molto a provare a inverare anche significative differenziazioni.
Una società aperta è quella dove lo spazio per le differenziazioni è ampio e in un certo senso si può affermare che la democrazia è “creare le condizioni perché possa essere esercitata”.
Il territorio di Brindisi di questo ha bisogno (come il pane, si direbbe) avviando procedure e metodi di partecipazione che “conferendo poteri” (empowerment) accrescono la possibilità dei singoli e dei gruppi di controllare attivamente la propria vita. I miglioramenti personali e sociali dipendono sia dai meriti che dalle opportunità del contesto e questi meccanismi sociali (si pensi alla bassa mobilità verticale e alla poca “trasparenza” delle opportunità) devono assolutamente funzionare.
Quando le stesse “cerchie” di riconoscimento sono troppo rigide e impermeabili si producono effetti contrari alla mobilitazione delle risorse e delle intelligenze.

4) La Cultura è oramai capace di catturare tutte le dimensioni dell’esistenza in quanto gli è propria lo statuto originale dell’umano: cultura come esperienza di senso, dare significati, offrire orientamento, proteggere dal caos, dare direzione e consapevolezza ai comportamenti attraverso apparati analitici e operativi.
Per questo la stessa identità, che alcuni definiscono “liquida”, non è data dallo spazio né dai luoghi ma dalla stessa “quotidianità”. Le comunità hanno identità nell’aver luogo, non dai luoghi. Hanno identità dagli ambienti sociali quando essi sono spazi “viventi” piuttosto che già vissuti in cui il linguaggio della “forma creata” non è separato né dall’abitare né dalla critica (in assenza di ciò le forme ed i segni spadroneggiano rispetto ai significati; è quanto accade con istituzioni “chiuse” e con la cosiddetta “architettura spettacolo”).
Le trasformazioni urbane sono trasformazioni dentro la testa delle persone: per questo non sono “più buoni” né utili gli standard di riferimento e gli indici predefiniti. Ci accorgiamo delle trasformazioni del paesaggio urbano (cityscape) ma non sappiamo cogliere le trasformazioni repentine e radicali del paesaggio mentale (mindscape) che si esprime in pratiche e culture, cioè significazione, che toccano i soggetti. La civitas preme oramai sul guscio dell’urbs (anche attraverso forme di mobilitazione collettiva) e sarebbe da “ugolini” non accorgersi di ciò.
Prima di tutto allora: non solo rinnovamento dei modelli interpretativi ma degli schemi mentali con cui affrontare il disagio del presente e le domande per il futuro, ma anche “lotta” tra “istinto delle combinazioni” e “persistenza degli apparati”.
Non ci sono in giro né venditori di almanacchi cui affidarsi né rappresentanti con “campionari” risolutivi. Chi vende in giro vende roba taroccata e omologata per ogni dove. Quello che serve è una originale combinazione di immaginazione, responsabilità, razionalità e progetto che veda persone crederci, collaborare in piena fiducia, che non temono intimidazioni. Lo statuto del presente-futuro richiede persone che sanno cambiare cambiando: in una parola filopolis, dalla parte della Politica e dalla parte della Città.
Cultura è relazione, e la Politica è la forma più importante di Cultura.

Emanuele Amoruso