06/12/2009

Idee per la città. Di Emanuele Amoruso


La città vive in me come un poema che non m’è riuscito di fissare in parole
(J.L.Borges)


Cercare le parole, qualche idea. Provare la riflessione (come ci vediamo) e la condivisione (come ci confrontiamo con l’altro da sé).
Costruire dalle idee il progetto, partecipando e trasformando. Sentire ogni idea-soluzione come sperimentale, vero statuto dell’ attuale complessità. Sfidare la contemporaneità “liquida” consapevoli (ma quanti lo sanno?) che la critica è la forma più alta di affetto verso la città, gli uomini e le donne.
Provare a raccontare: quale narrazione per questa città? Dipende da chi la racconta e da chi l’ascolta. Ogni città ha due livelli di narrazione: quella ufficiale, che riceve rilievo, e quella non ufficiale, sotterranea. La seconda è silenziosa, si perde in mille rivoli, a volte vischiosi. Essa segna le persone, suggerisce comportamenti e scelte; è quella che rimane nel tempo.
Le idee vengono da domande. Domande di pancia, di testa, intuite, improvvisate, pesanti, impronunciabili.
Esprimono un retro pensiero di bisogni, sogni, speranze, necessità e immaginazione. Già, ma se sono infinite le fonti, come farle emergere, chi riesce a condensarle?
E’ finito il discorso unitario, sia ideologico che di “rappresentazione” sociale: è smarrito il senso dell’agire. In periodo di immediatismo emotivo, di frequenti e maleodoranti confronti pubblici, chi ricompone un senso ed un agire comune? Il “discorso pubblico” è ostaggio del presente e all’opinione pubblica non si chiede di essere attore della discussione. Lo sguardo breve imprigiona la “storia breve”: serve invece uno sguardo lungo, galileiano. La fine del discorso unitario (non “unico”) lascia un vuoto nel soggetto e nelle istituzioni?
Mugugno, insoddisfazione, disaffezione, disincanto e disimpegno: tratti diffusi del rapporto tra cittadino e società, tra individui e comunità. Continua a prevalere il premoderno familismo amorale rispetto al responsabile e razionale “far parte” del corpo sociale? Trascuriamo il consistente conflitto, nascosto ma spesso palese, tra società legale e illegale e le sue contaminazioni.
Si può dire che nella terra che sta “nel mezzo della Storia”, serbiamo la specialità della “speculazione” ma non quella “dialettica” che trasforma e supera magia, mito, fatalità e tecnica autoreferente? A proposito: che ceto politico e classe dirigente abbiamo avuto negli ultimi 40 anni? Vi sono appartenenze, “cerchie” di riconoscimento e “famiglie” impenetrabili, incontrollabili, invadenti? Parafrasando possiamo dire: ubi jus, ibi societas (dove c’è Legge, lì c’è la Società). E’ condivisa questa affermazione e si ritiene fondante? Si parla di meritocrazia, ma le elite, i ceti dirigenti come si selezionano? Viene fuori il meglio? Quale equilibrio trovare tra interessi, valori e bene comune?
Quel capitale di fiducia reciproca, di cooperazione, di solidarietà, per costruire-proteggere il “bene comune”, dove si nasconde? Può essere tirato fuori? Se il discorso è come meglio impiegare le “risorse” si ritiene che il capitale sociale sia una di queste risorse immateriali, auto rigenerante? E’ la partecipazione una leva per questo capitale cui serve informazione e coinvolgimento? Nelle attuali modalità di esperienze di pianificazione innovativa diversi sistemi interagiscono nella complessa trama istituzionale della sussidiarietà, condivisione, coesione sociale. Abbiamo esempi per una democrazia partecipata, preso atto del limite asfittico dei “processi decisionali” di rilevanza pubblica?
Un’altra domanda (è una idea?): è accettabile e condivisibile l’equilibrio-rapporto tra sviluppo e progresso? Vogliamo sintonia tra l’agire pubblico e privato? Il benessere sociale è attento ai dati e alla percezione di persona e comunità piuttosto che a limitati indicatori econometrici?
“Il progresso è dunque una nozione ideale (sociale e politica); la dove lo sviluppo è un fatto pragmatico ed economico”. Pasolini era per il progresso.
Altre domande: dov’è la bellezza, la sperimentazione, la società aperta? E la qualità della vita? E’reddito o anche sicurezza? E’ vivere l’incertezza e il precariato o poter stilare (penso ai giovani) un “progetto di vita”?
Guardare alla città è contemplarne la morfologia discontinua e contradditoria, occuparsi del suo landscape (paesaggio urbano) e/o cercare di comprendere il mindscape (paesaggio mentale) di abitanti e city users? Si può pensare ad una città friendly (amica) che abbatta dualismi e diffonda pratiche di empowerment (dare e trasferire potere)?
La città prima ancora di essere un sistema fisico-funzionale è un sistema sociale complesso: il trasformare, il rigenerare (dare nuovo significato, e non solo abbellire, rifunzionalizzare) ha effetti sulle pratiche sociali di tutti. Le “buone intenzioni” devono misurarsi dall’alto ma anche dal basso: far emergere i punti di vista, conoscere coniugando i vari saperi. “Non chiederti quale è il problema, ma quale è la storia” (Foster): ecco le micro storie e le diverse interpretazioni e sensibilità. Ciò è decisivo per l’appartenenza e l’identità e contrastare anomia e disaffiliazione.
Cambiare il modo, cambiare il mondo: se cambi acquisisci nuovi linguaggi e paradigmi. Costruisci una mappa cognitiva che innova tanto più è diffusa. Dare cittadinanza ai processi creativi affermando il milieu innovativo, rompendo con codici e consuetudini conservatrici. Nuova mentalità che soppianti quella crapulosa e di bassa cucina. A proposito: che ruolo hanno ancora le corporation venute da fuori con le loro logiche di “colonizzatori ” e inquinatori, e quanto condizionano ancora?
La Cultura, ruolo e funzione. Finalmente l’argomento è “entrato” nel discorso pubblico. Sta producendo formazione superiore e programmazione continua. Ma si rischia il “pedagogismo”? Ha il retro pensiero della distinzione “datata” di cultura alta e cultura di massa? La Cultura è “critica dell’esistente” facendo transitare dal “crudo” delle monadi indistinte e belligeranti al “cotto” della relazione tra soggetti comunitari?
Ecco, non esistono di sicuro idee salvifiche.
L’alba si distende su tutti, così come le nebbie di novembre, e bisogna soprattutto slegare gomene. Il vento segna i volti e gli animi. E noi somigliamo molto all’improvviso montare del vento del nostro canale d’Otranto: passata la buriana, abbandoniamo il coraggio verbale e torniamo ai riti dell’autoconsolazione e dell’autoinganno.
Progettare vuol dire “venire in essere”, come potrebbe essere. E la nemesi è punizione per ciò che non siamo, ciò che non facciamo. Perché se sprechi la tua vita qui…è come averla sprecata su tutta la terra.
Venticinque anni fa, con amici volenterosi, abbiamo proposto l’ALEPH: comprendere da tutti i punti di vista, e contemporaneamente.

Proposta: facciamo gli “stati generali” della città.

Emanuele Amoruso