25/09/2010
In quegli occhi vedo mio padre. Di Dario Bresolin
Il seguente pezzo è apparso Venerdì 24 settembre 2010 a pag. 19 dell’edizione brindisina de “Il Nuovo Quotidiano di Puglia” con il titolo “In quegli occhi vedo mio padre.”
“Daddy, bicicletta no rubata, bicicletta mia. Guarda, mia foto con bicicletta. Data mio padrone.”
Avevo incontrato questo ragazzo il giorno dopo la sua uscita dal carcere. Un giorno e mezzo “dentro” per aver rubato la sua bicicletta. Il caso si è chiarito quasi immediatamente. Però avrei voluto fotografare quegli occhi, ancora non tranquilli.
Mi parlava chiamandomi “daddy”, che significa “papà.” Non dimenticherò mai lo sguardo rivolto verso di me che ero in un letto di ospedale con sei fili collegati ad un monitor.
Occhi lucidi e spaventati per l’amico che non stava bene. Impossibile da dimenticare.
Gli altri ammalati osservavano il ragazzo africano con la pelle nera ed i capelli ricci. Io ero contento di vedere il mio amico che era venuto a trovarmi, come pochi altri.
Li vedi in giro su biciclette non sempre sicure.
Partono di notte dalla loro “casa”, il dormitorio, per raggiungere la campagna per la loro giornata di lavoro. Poi tornano, vanno al loro supermercato e ne escono con la busta con dentro le poche cose comperate. E vanno “a casa”. Chi non lavora, o studia, alle undici e trenta è già in fila alla Caritas per il pranzo. Tutte persone giovani. Si salutano fra di loro, ti salutano per primi se ti conoscono e ti chiedono sempre “Come stai?” con un sorriso.
Mi capita spessissimo di incontrarli e mi concentro sulle loro voci. Non capisco cosa dicono ma capisco come stanno. Allegri, tristi, preoccupati.
Quando si appartano o sono soli su una panchina hanno in mano una carta telefonica. E capisco che stanno parlando con la loro famiglia. Lo si capisce anche dai loro occhi.
Dall’altra parte del telefono c’è quasi sempre la mamma. Vorrei vedere gli occhi di quelle mamme. Il proprio figlio lontano, lontanissimo. Chissà quando si rivedranno. Alla mamma si racconta sempre che stanno bene, che lavorano, che hanno una casa. Le solite bugie che si raccontano alle persone più care per non farle preoccupare. Tante solitudini che si nascondono dietro un orgoglio tutto loro.
Non è facile vivere in un paese straniero, anche se formalmente “civilizzato”.
Chi lavora non sempre è fortunato. Capita spesso che il “padrone” o il “capo” offra loro un lavoro molto pesante e pagato poco. E a volte nemmeno li pagano. E loro abbassano la testa, a volte non lo dicono a nessuno per paura.
Ci si sente sporchi, colpevoli.
Maltrattare un immigrato è violenza pura. Mi auguro ci sia presto una legge dura, durissima per questi rispettabili “padroni”.
Sono bravissimi a far percepire ai ragazzi il loro desiderio di aiutarli ma in realtà è proprio in quel momento che li stanno violentando.
Gli “immigrati” vanno rispettati perché loro, come disse una volta una donna che li conosce bene, Mamma Adele, vengono in pace e vogliono vivere in pace.
Vengono spesso da dove la pace non c’è più o non c’è mai stata. E quando commettono reati, quando questi reati non nascono nei cervelli disturbati da fobie o perversioni di qualche politico da quattro soldi, vanno puniti.
Mi piace osservarli quando i bambini si fermano davanti a loro e chiedono: “Come ti chiami?” E loro rispondono con un sorriso a metà che nasconde tutta la nostalgia per i loro bambini. Alcuni di loro sono già padri. Deve essere difficile, molto difficile.
Alcuni di loro vivono in famiglie che li hanno accolti. Spero si trovino bene, che ci sia affetto e rispetto per loro, e che il clima di quelle famiglie permetta loro di conservare la loro identità.
Molti anni fa, un ragazzo venuto dal nord era solito andare con la sua bicicletta al Bar Fiamma, sedersi al tavolino ed ordinare due caffè. Lui prima ne beveva uno. Poi spostava le tazzine e beveva l’altro.
Quel ragazzo me lo raccontava spesso per farmi capire quanta solitudine ci possa essere quando la famiglia è lontana e ci si trova da soli in una nuova comunità.
Quel ragazzo venuto dal nord per cercare lavoro qui era mio padre. Non aveva mai dimenticato il suo dialetto, il cibo preferito che mia madre aveva dovuto imparare a cucinare. Anche i gesti delle mani, spesso, parlavano della sua terra. Una terra che per me era pace.
Quando vedo un “immigrato” sulla bicicletta io vedo mio padre. E quando stringo le mani ad uno di loro è come se la stringessi a lui.
Mi piacerebbe che ognuno di noi riuscisse a vedere ognuno di loro come una persona. Sono certo che nemmeno loro chiedano di più.
Dario Bresolin
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