13/07/2013
Cravatta sì, cravatta no. Di Guido Giampietro
Il “casus belli” l’ha provocato nei giorni scorsi Barack Obama quando, in camicia e senza cravatta, è salito sul palco di fronte alla porta di Brandeburgo per parlare ai berlinesi che affollavano il Viale dei tigli. Deve però avere avuto un po’ di timore per quel gesto troppo “casual” se, un momento dopo, ha ritenuto di dovere precisare: “Fa così caldo e io sto così bene che ho deciso di togliermi la giacca; e chiunque, se lo desidera, può fare altrettanto”.
Ma lo “scandalo” non si è limitato a questo episodio già di per sé significativo d’una certa mentalità un po’ demagogica e populista. Infatti, a conferma del condizionamento che riescono ad esercitare i più forti, nel corso del G8 i cosiddetti potenti della terra si sono presentati tutti senza cravatta.
Nemmeno a farlo apposta ˗ o forse prendendo lo spunto proprio da questo episodio ˗ la questione cravatta, da rango internazionale è scesa a quello più modesto della politica parlamentare nostrana. Così, nelle mani dei senatori del M5S, il segnale liberatorio di Obama è divenuto un gesto forse inconsapevolmente peronista, da nostalgici “descamisados”. Un gesto di ribellione contro la calendarizzazione-sprint in Cassazione del processo Mediaset. Anche se il senatore Crimi ha definito l’abbandono di giacca e cravatta solo un atto simbolico “per dimostrare che il Parlamento non è più quello per cui siamo stati eletti…”.
Ma non di solo politica vive la cravatta. In questo tempo di allestimento delle squadre di calcio e del tourbillon dei cambi d’allenatori, si discute animatamente se il mister, in campo, debba o no indossarla. Ci sono i fedelissimi della tuta ˗ ispirati dal mitico Carletto Mazzone ˗ ma sono davvero in pochi. Tutti gli altri si sono arresi alla divisa sociale: giacca di buon taglio, pantaloni classici, cravatta con lo stemma della Società. Cravatta che però anche il neoallenatore del Napoli (“Ringhio” Gattuso) ha mostrato di gradire poco. Insomma, niente a vedere con uno stile alla Mancini, fatto di abiti slim, di pashmine annodate con sapienza, di cravatte e altri arzigogoli stilistici.
Incuriosito dal cicaleccio di questi ultimi giorni mi sono guardato intorno scoprendo che il vezzoso accessorio anche a Brindisi si è praticamente estinto. E non solo tra i giovani, ma ˗ direi soprattutto ˗ tra gli anziani che, volenti o nolenti, l’hanno indossata tutta la vita.
E i politici locali? Vige anche per loro la ferrea regola che alla Camera e al Senato impone ˗ in qualsiasi stagione ˗ l’uso di giacca e cravatta? Per scoprirlo mi sono avvalso dell’ausilio di Youtube. Le riprese filmate di un paio di Consigli comunali sono state più che sufficienti a presentarmi una realtà fatta di poche giacche e cravatte ma, in compenso, di molti colletti orfani della colorata fettuccia e, addirittura, della stessa giacca! Per non parlare dei maglioni alla Sergio Marchionne e dei giubbini di tutte le fogge e tessuti…
È a questo punto che mi sono posto la domanda: è ancora da difendere o è da processare la cravatta? Cioè quella che, da sempre, è stata giudicata ornamento superfluo, sogno inconfessato, capriccio della fantasia, nota di colore, richiamo sessuale, status symbol, argomento filosofico, segno e comunicazione, test di personalità. Ma anche nodo scorsoio, capestro velleitario, cappio imbelle…
Bisogna convenire che i tempi sono cambiati. La strenua difesa che ne faceva il conte Giovanni Nuvoletti in “Elogio della cravatta” ha il tono di un romanticismo parecchio demodé. E decisamente superata è anche la descrizione di Carlo Castellaneta: “Nella grigia operazione del vestirsi ogni giorno, la cravatta è l’unico momento di luce, una pausa di estro. Chi voglio sembrare quest’oggi? Mi chiedo allo specchio. Succede di dover cambiare due o tre cravatte prima di decidere, esattamente come fa una donna che, già pronta per uscire, cambi abito e borsa come se niente fosse…”.
Credo però che tutti quelli (in primis i politici) deputati a svolgere funzioni pubbliche abbiano il dovere di dare prova di decoro e serietà anche nell’abbigliamento che indossano. Si dice che, agli albori della radio, gli annunciatori della Bbc leggessero il notiziario indossando lo smoking! Teoricamente avrebbero potuto fare il loro lavoro anche in mutande, ma l’azienda riteneva che la lettura delle notizie fosse un servizio pubblico e che un abito dimesso sarebbe stato una mancanza di rispetto per gli ascoltatori. Fortunatamente questa norma di bon ton è giunta fino ai giorni nostri e i giornalisti dei TG nazionali (almeno quelli) si presentano (ancora) al pubblico dei telespettatori in giacca e cravatta.
Insomma non è detto che l’uomo pubblico, senza cravatta o con la cravatta ma in maniche di camicia, dimostri così di essere più accattivante e amico del popolo. Al contrario! Dimostra di non avere rispetto né per l’ambiente né per le persone. Senza contare che, con questo comportamento, contribuisce a compromettere il primato della moda italiana nel mondo e a consentire ad un Bernard Arnault ˗ il signor Lvmh ˗ a portare in Francia, dopo Berluti, Fendi, Pucci, Acqua di Parma, Rossimoda, Bulgari, Loro Piana e Pasticcerie Cova, anche qualche prestigioso marchio di cravatte che, per la stoffa, i disegni, la combinazione dei colori rimangono, al momento, articoli ineguagliabili.
In conclusione, bene avrebbe fatto il Presidente Letta a tenersi, all’ultimo G8, la sua cravatta. E al termine dell’incontro, per dare una mano all’economia nazionale, a donarne una a ciascuno dei colleghi intervenuti…
Guido Giampietro |