02/03/2013
Un viaggio con le ali della poesia. Di Guido Giampietro
Nei Brāhmana ˗ i testi religiosi indiani composti in sanscrito intorno ai secoli XI - IX a.C. ˗ Indra, il dio protettore dei viaggiatori, incoraggia un giovane di nome Rohita a intraprendere una vita sulla strada. «Non c’è felicità ˗ dice Indra ˗ per chi non viaggia, Rohita. / A forza di stare nella società degli uomini, / anche il migliore di loro si perde. / Mettiti in viaggio. / I piedi dei viandanti diventano fiori, / la sua anima cresce e dà frutti / e i suoi vizi son lavati via dalla fatica del viaggiatore. / La sorte di chi sta fermo non si muove, / dorme quando quello è nel sonno / e si alza quando quello si desta. / Allora vai, viaggia, Rohita».
Si tratta del medesimo tema ˗ “Io cammino (tributo al viaggio)” ˗ che la poetessa mesagnese Rita Greco ha scelto per un incontro letterario che si è tenuto a Mesagne, sotto l’egida dell’Associazione Artistico-Culturale “Cenacolo Carmelitano” e dell’Associazione Culturale Solidèa, nell’accogliente sala del cine-teatro “Shalom” della Basilica Santuario del Carmine.
Un Reading che ˗ se proprio anglismo dev’essere ˗ cambierei piuttosto in Dreaming. Ché infatti d’un sogno si è trattato, più che d’una lettura. Un alito di commozione che, grazie alle poesie scelte da Rita e alle musiche e testi inediti del cantautore Davide Berardi, ha coinvolto un uditorio a cui saranno venute in mente le domande di sempre: in che cosa consiste la magia della poesia? E di certi versi in particolare? E perché alcune parole disposte in un determinato ordine rimangono in mente tutta la vita e altre no?
Curiosamente l’incipit del programma riguarda un brano di prosa. Basta però solo un battito di ciglia per comprendere che le parole di Maksim Cristan altro non sono che versi sciolti: «La strada accetta tutto e tutti. Può essere una discarica umana o addirittura il paese delle meraviglie (…). Ma soprattutto, la strada è principalmente un luogo ove si cammina. Camminare, quindi. Un verbo col quale ogni altro fa rima, anche se ce n’è uno su tutti che, e non certo per ragioni fonetiche, lo fa meglio degli altri ed è ricominciare. Poiché si sa: chi sa ricominciare, vivrà. E a parte la strada, personalmente, non saprei indicare un luogo più adatto a chiunque capiti di dover ricominciare».
E un viaggio in compagnia dei poeti sembra percorrerlo la stessa Rita, con quei leggiadri spostamenti di farfalla tra leggio e quinte; e i “riposi” sul piancito del palcoscenico ad ascoltare il lamento delle corde della chitarra o gli arpeggi del liuto o la stessa voce con cui Davide segna lo stacco tra una poesia e l’altra.
Un momento dopo Rita declama Emily Dickinson: «Ho calpestato un’asse dopo l’altra / camminando lentamente, con cautela. / Sul mio capo le stelle / e attorno ai piedi il mare. / Questo solo sapevo: un altro passo / poteva essere l’ultimo. / E avevo quell’andatura incerta / che taluni chiamano esperienza» (Colloqui con le ombre).
Il viaggio continua (con Capossela e Gibran) insieme agli spettatori che sono attratti anche dalle musiche del pifferaio magico-Davide. Forse, nelle pause che Rita concede con studiata parsimonia, scorrono veloci, tra il pubblico, le riflessioni esistenziali sull’uomo che accetta stoicamente il destino, che ha imparato a non lamentare l’esiguità dei risultati raggiunti perché ciò che conta è il “bel viaggio intrapreso” di cui parla Kavafis. Forse. Poi, dolce, torna la voce di Rita a declamare Octavio Paz: «Tutto è porta / basta la lieve pressione di un pensiero» (Notte di veglia).
E parliamo un momento della dizione, pura come cristallo di rocca. Conoscevo Rita come affermata poetessa, autrice d’una silloge poetica (Perché ho sempre addosso un cielo), attrice teatrale e collaboratrice del Premio Letterario Nazionale Città di Mesagne. Dunque una donna ˗ seppure giovane ˗ avvezza a calcare il palcoscenico e a confrontarsi col pubblico. Ma sono rimasto lo stesso basito di fronte alla maturità raggiunta, fatta di padronanza della scena (sua è anche la regia), d’una voce che asseconda il testo, oltre che d’una grazia nel portamento e nella gestualità.
Tutte qualità che ritrovo allorché presta la voce a Paulo Coelho: «Gioisci quando raggiungi la vetta. Piangi, batti le mani, urla ai quattro venti che ce l’hai fatta. Lascia che il vento, lassù in cima ˗ è sempre ventosa, la vetta ˗ ti purifichi la mente, rinfreschi i tuoi piedi stanchi e sudati, ti apra gli occhi e ripulisca il tuo cuore dalla polvere. Che bello! Ciò che prima era soltanto un sogno, un panorama lontano, adesso appartiene alla tua vita. Sì, ce l’hai fatta!» (Sono come il fiume che scorre).
Ma mi ha conquistato anche questo giovane Davide che si destreggia bene tra chitarra e liuto e così la mente corre ad una notizia di qualche giorno fa. Antonio Skármeta, autore de Il postino di Neruda, ha scritto dei versi per Toquinho e questi li ha musicati e messi su un cd che avremo il piacere d’ascoltare tra qualche mese. Penso che un binomio artistico potrebbe nascere anche tra Rita e Davide. Chissà!
Non c’è tempo per soffermarmi su questa idea perché sopraggiungono i versi di Arthur Rimbaud: «Me ne andavo, coi pugni chiusi nelle tasche sfondate; / anche il mio paltò diventava ideale; / andavo sotto il cielo, Musa! (…) / La mia locanda era l’orsa maggiore. / Nel cielo le mie stelle avevano un leggero fru-fru. / L’ascoltavo seduto sul ciglio della via, / le belle sere settembrine in cui la rugiada / m’imperlava la fronte come un vino di vigore; / in cui poetando tra ombre favolose, / tiravo come lire gli elastici alle scarpe ferite / e avevo un piede accanto al cuore» (La mia boheme).
Penso a Rimbaud e al suo “Le bateau ivre”, il battello ebbro, simbolico viaggio d’un battello fantasma col quale identifica la sua stessa vita, il suo bisogno d’andare alla ricerca dell’ignoto. Rivado col pensiero alla sua lunga permanenza a Brindisi prima d’imbarcarsi per Paros. Ma è proprio qui che, complice la vertigine d’una città d’acqua, Rimbaud erra di osteria in osteria, vagabondo senza più denaro, finché, annebbiato dall’assenzio e colpito da un’insolazione, viene rimpatriato dal console di Francia.
E mentre ancora ho in mente quel “viaggiatore cencioso” (come lo definì Paul Verlaine) Rita presenta l’ultima perla della collana: una collana tenuta insieme col filo dell’amore per la poesia. Questa volta sono sue le parole tratte dal racconto poetico Dimmi visionaria: «Tutte le cose sono come tu decidi che siano. Le cose possono chiamarsi splendore o cupezza, dipende da dove le guardi, dipende da quale colore di lente scegli. Potresti chiamarla bacchetta magica, se ti piace, se ami le favole. Se sei diventata un ottimista e, spiando la vita da un angolo nuovo, ci ha visto bellezza, e ogni dolore l’hai scoperto semina di una più vasta chiarezza. È una semina che richiede coraggio, ma il raccolto è quanto mai fruttuoso».
Lascio la sala in fretta perché mai come in certi momenti s’avverte il bisogno d’essere soli con se stessi. Fuori, intanto, la rabbia dello scirocco non conosce riposo. Ed è alla sua forza che affido i miei lievi pensieri sulla magia della serata.
Guido Giampietro
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