03/08/2013
C’è ancora l’amor di patria? Di Guido Giampietro
Un pensionato di Campobasso viaggia sulla propria auto con un faro spento e incappa in un controllo della polizia. Come avviene in questi casi, contestualmente all’esibizione dei documenti, ci si arrampica sugli specchi per giustificare l’indiscutibile infrazione. Si comincia con una plateale ammissione di colpa, per poi passare a una battutina scherzosa, fino a cercare d’intenerire il cuore del pubblico ufficiale con qualche banale scusa.
Ma il nostro pensionato, fino a quel momento educato e ossequioso, allorché il poliziotto si appresta a elevare la contravvenzione, sbotta nella fatidica frase: “In questa Italia di m… eccetera eccetera”.
Da qui la denuncia, la trafila dei processi e, finalmente, la sentenza del 4 luglio della Corte di Cassazione (una sentenza piccola piccola rispetto a quella grande grande del primo agosto, ma pur sempre una sentenza) nella quale è stato decretato che è un reato definire l’Italia un “paese di merda” (fedele espressione utilizzata dall’alto consesso nel condannare il tizio per vilipendio alla Nazione).
La notizia merita un approfondimento perché, facendo un veloce esame di coscienza, nessuno può negare che quella frase, almeno una volta nella vita, l’ha pronunciata. Anche se non proprio sul muso d’un poliziotto nell’esercizio delle sue funzioni…
In un Paese dove la Giustizia ha tempi monastici, i servizi pubblici fanno acqua da tutte le parti, la Scuola cade a pezzi, i soliti furbi non pagano le tasse, la Sanità è nelle mani di una minoranza di volenterosi, l’evasione costituisce motivo di vanto e la corruzione dilaga (tanto per citare alcuni mortificanti esempi) viene naturale alzare la testa al cielo e lasciarsi andare a un’espressione così colorita.
Forti anche del fatto che la frase incriminata è stata pronunciata innumerevoli volte da fior di onorevoli deputati e senatori della Repubblica (e, che io sappia, senza conseguenza alcuna!).
Facendo astrazione dal caso specifico, ma tenendo presente l’esclamazione del tizio, l’occasione è propizia per porci la domanda se esista ancora un amor di patria e, in particolare, se sia corretto insultare l’Italia per nascondere la propria immaturità di cittadini e la propria furbizia da quattro soldi.
Goethe, nel 1790, in occasione del suo secondo viaggio in Italia (conclusosi brevemente a Venezia) così scriveva: “L’Italia è ancora come la lasciai, ancora polvere sulle strade, ancora truffe al forestiero, si presenti come vuole. Onestà tedesca ovunque cercherai invano, c’è vita e animazione qui, ma non ordine e disciplina; ognuno pensa per sé, è vano, dell’altro diffida, e i capi dello stato, pure loro pensano solo per sé. Bello è il paese! Ma Faustina, ahimè più non ritrovo. Non è più questa l’Italia che lasciai con dolore”.
Al contrario, alla fine dell’Ottocento, così si esprimeva De Amicis: “Italia, patria mia, nobile e cara terra, dove mio padre e mia madre nacquero e saranno sepolti, dove io spero di vivere e di morire, dove i miei figli cresceranno e morranno; bella Italia, grande e gloriosa da molti secoli, unita e libera da pochi anni, che spargesti tanta luce d’intelletti divini sul mondo, e per cui tanti valorosi moriron sui campi e tanti eroi sui patiboli… Ti amo, patria sacra! E ti giuro che amerò tutti i figli tuoi come fratelli; che onererò sempre in cuor mio i tuoi grandi vivi e i tuoi grandi morti; che sarò un cittadino operoso ed onesto, inteso costantemente a nobilitarmi, per rendermi degno di te, per giovare con le mie minime forze a fare sì che spariscano un giorno dalla tua faccia la miseria, l’ignoranza, il delitto…”.
Veramente troppa è la differenza di opinioni tra Goethe e De Amicis. E troppo tempo intercorre tra quelle e le considerazioni che si possono fare oggigiorno sull’argomento Italia.
La prima è che il tizio dell’imprecazione non ha mai letto (o lo ha dimenticato) il libro “Cuore”… Ma, a parte la battuta, c’è da dire che, a buon diritto, rientra nello stereotipo dell’italiano che, dopo aver commesso un’infrazione, non solo non ammette i propri torti, ma inveisce platealmente contro l’autorità costituita o, peggio ancora, contro il Governo (ladro) e il Paese intero.
Quel signore (si fa per dire) rappresenta il cliché dell’italiano furbo e irresponsabile. Quello che pratica in ogni luogo e in ogni occasione lo sport dello scaricabarile, vale a dire l’esercizio di addossare sugli altri una propria colpa e, viceversa, di considerare la collettività solo in funzione di se stessi.
La seconda considerazione, invece, attiene al concetto di appartenenza al Paese. Una prerogativa che, con il passare degli anni, si è di molto indebolita. La colpa? Troppe le concause che hanno determinato tale stato di fatto. Dalle dure campagne pseudofederaliste della Lega Nord, agli esempi nefasti di chi, indegnamente, rappresenta le più alte Istituzioni dello Stato, all’incancrenirsi dei fenomeni mafiosi concentrati nel sud della penisola (ma oramai presenti in ogni dove), a una malintesa idea del ruolo superstatale dell’Europa…
Insomma, a parte lo sventolio di tricolori in occasione delle partite internazionali di calcio e gli accorati appelli del Presidente della Repubblica (per tutti, semplicemente Napolitano… E anche questo è un segnale che deve fare pensare!), non c’è nessuno a cui interessino veramente le sorti dell’Italia. Nessuno ˗ tanto per intenderci ˗ che posi la mano sul cuore quando si levano le note dell’Inno nazionale.
Vi sono ancora margini per un cambiamento di rotta? O dobbiamo dare ragione al D’Azeglio quando ammoniva che, fatta l’Italia, bisognava fare gli Italiani? E questo risulta ancora più grave in un momento in cui si parla di uomo europeo e, addirittura, di uomo universale!
A mio avviso ˗ e non vuole essere, questa, una provocazione ˗ il rispetto (per l’amore ci vuole molto più tempo) per il Paese d’appartenenza potrebbe venire proprio da quel popolo multietnico da cui i più vorrebbero prendere le distanze!
Quando la ministra Cécile Kyenge ˗ coriacea alle volgarità che le piovono quotidianamente addosso ˗ afferma di sentirsi orgogliosa d’essere italiana c’è da pensare che un “rimescolamento” di Dna, spazzando via preconcetti sul diritto di cittadinanza e sul razzismo, possa portare pian piano a una ritrovata coscienza nazionale.
Solo in tal modo non susciteranno il sorriso le parole di Gogol: “Tutta l’Europa è fatta per essere visitata, ma l’Italia è fatta per viverci… Chi è stato in Italia può dire addio agli altri Paesi. Chi è stato in cielo non avrà mai voglia di tornare sulla terra”.
Senza contare che un po’ d’amor di patria servirebbe a ridare colore alla nostra sbiadita immagine internazionale. E alla nostra bilancia dei pagamenti…
Guido Giampietro |