07/09/2013

La crisi economica e i “compro oro”. Di Guido Giampietro


C’è stato un solo caso, nella storia dell’umanità, in cui all’oro non è stata data alcuna importanza. Ma ci troviamo nel campo della letteratura utopistica e a parlarne è stato Tommaso Moro con la sua opera “L’utopia o della miglior forma di Repubblica”. Siamo nell’anno di grazia 1516.
Gli Utopiensi ˗ gli abitanti della fantastica isola di Utopia ˗ non adoperano la moneta e, di conseguenza, l’oro e l’argento con cui quella si fabbrica diventano meno preziosi del ferro. “Senza di questo, come senza fuoco e senz’acqua, gli uomini non possono vivere, mentre la natura non ha conferito all’oro e all’argento nessuna qualità di cui non si possa facilmente fare a meno…”.
Il ragionamento del filosofo non fa una grinza. Vediamo fin dove si spinge.
Se oro e argento ˗ continua ˗ “fossero nascosti in qualche torre, potrebbe nascere il sospetto, tanta è la stoltezza dello zelo popolare, che il Principe e il Senato vogliano ingannare il popolo con qualche stratagemma per riceverne qualche vantaggio personale: se fabbricassero coppe e altri oggetti di oreficeria, quando sopravvenisse l’occasione di rifonderli per pagare i soldati, dispiacerebbe a molti vederseli togliere dopo averli piacevolmente usati”.
Perciò gli Utopiensi, “per ovviare a questi pericoli hanno escogitato un sistema che ben si accorda con le altre loro istituzioni, ma è lontanissimo dalle nostre che tengono in tanto pregio l’oro e lo nascondono con tante cautele (…).
Infatti mentre mangiano e bevono in vasi di creta e di vetro, bellissimi, ma di nessun valore, con l’oro e l’argento (…) fabbricano vasi da notte e altri vasi da immondezza, catene e grossi ceppi per legare gli schiavi”.

Riuscite ora ad immaginare i cassonetti della Monteco fatti d’oro massiccio…? Senza contare che i recipienti per la raccolta differenziata, anch’essi realizzati in oro 24 carati, rimarrebbero al sicuro dentro i confini dei condomini, risparmiandoci in tal modo il vergognoso spettacolo offerto nelle pubbliche vie.
Ognun vede come nell’isola di Utopia, organizzata in questo modo, non avrebbero potuto trovarsi né gioiellerie né, tantomeno, “compro oro”. Naturalmente l’utopia del Moro è una cosa, la realtà è un’altra.

Che poi, a voler approfondire l’argomento, queste due attività commerciali non possono essere messe sullo stesso piano.
Le vetrine delle gioiellerie, infatti, riflettono negli occhi dei passanti lo scintillio dei monili e quanto di più bello l’arte orafa riesce a creare adattandosi alle esigenze dettate dal mutare dei tempi e dei gusti.

Indipendentemente dalle possibilità finanziarie dei singoli rimane un piacere soffermarsi davanti alle vetrine e godere dei riflessi dorati che, al pari dei raggi del sole, riescono a scaldare i cuori e ad accendere la fantasia.
Le donne ˗ complici le grandi vetrate che si prestano a fare da specchi ˗ quei gioielli esposti riescono addirittura a indossarli.
Anche i più costosi. Naturalmente con la fantasia. Ma quando si allontanano dal negozio hanno la speranza, prima o poi, di ritornare e di varcare una porta che tanto assomiglia a quella della Città Proibita di Pechino.
Questa gioia, invece, non la danno i nuovi negozi dei “compro oro”.
Qui non ci sono vetrine che fanno fantasticare e non si va a comprare oro, ma a venderlo!
Malgrado ciò stanno soppiantando ˗ grazie alla crisi che ancora non demorde e alla ineludibile legge della domanda e dell’offerta ˗ le vecchie e care (in tutti i sensi) oreficerie. Infatti un italiano su quattro, nell’anno in corso, si è rivolto a questa singolare catena di negozi. Lo evidenzia il “Rapporto Italia 2013” dell’Eurispes: in un anno la percentuale è salita dall’8,5% al 28,1%.
Purtroppo il fenomeno presenta un altro amaro risvolto: quello della malavita che, fiutato l’affare, si è gettata a capofitto in questa nuova e lucrosa attività. Lo confermano i dati della Guardia di Finanza: nell’anno in corso sono stati arrestati 52 responsabili di traffico di metalli preziosi, oltre il 200% in più rispetto all’anno precedente!

Tutto qui? Nemmeno per sogno. A rendere l’argomento ancora più scabroso ci si mette anche la pubblicità televisiva. Non quella locale, ma quella che ci delizia sui canali nazionali della RAI e di Mediaset. Con il risultato che un fenomeno drammaticamente serio viene sminuito a livello di uno spot leggero. Addirittura, nelle intenzioni dei committenti e delle reti televisive, questa pubblicità intende proporsi come educativa!

Così, tanto per fare un esempio, Renato Pozzetto, al fine di reclamizzare un marchio dei “compro oro”, recita la parte del nonno che si è venduto un orologio regalatogli dal figlio per comprare i doni di Natale ai nipoti.
In un altro spot, sempre in coppia con il figlio, dice di essersi sbarazzato di qualche “cianfrusaglia d’oro” per acquistare un megaschermo. “Così quando sono a casa ˗ dice soddisfatto ˗ anziché aprire il cassetto e guardare l’oro, guardo il televisore e mi diverto di più”.
Il testimonial di questo spot (ma su grandi manifesti stradali sono apparsi anche Anna Falchi, Fabrizio Corona, ecc.) definisce “cianfrusaglie” gli oggetti ˗ fors’anche di poco valore ˗ che rappresentano però la memoria storica di una famiglia. Il legame che tiene avvinti i membri di oggi a quelli delle passate generazioni. E non credo proprio, con tutta la simpatia che da sempre nutro per Renato Pozzetto, che la misera somma barattata con quei ricordi venga impiegata per acquistare megaschermi.

Insomma dalla solidarietà dei vecchi Monti di Pietà si è passati al tradimento delle speranze di vita. Un tradimento bello e buono perpetrato dai negozi di “compro oro” ˗ anche quelli più commercialmente corretti ˗ a danno dei poveri cristi impossibilitati a giungere alla fine del mese.
Altro che megaschermi!
La legge di Antoine de Lavoiser sulla conservazione della materia così enuncia: “In natura nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”.
C’è da augurarsi che sia sempre valida e che i negozi di “compro oro”, quanto prima, si trasformino in luoghi dove l’oro (ma anche l’argento) torni ad essere acquistato.
E ˗ non appaia un’eresia ˗ ad essere perfino donato a chi si vuole bene.

Guido Giampietro