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Brindisi, Forum: morti bianche, consegnata la nota alla Commissione Parlamentare



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Brindisi, 26/09/2005

Forum: morti bianche, consegnata la nota alla Commissione Parlamentare

Questa mattina in Provincia il Forum Ambiente e Sviluppo ha incontrato Commissione d’inchiesta del Senato sugli infortuni sul lavoro e sulle morti bianche, nell'occasione è stata consegnato il seguente documento:

NOTA DEL FORUM SUI “MORTI DEL PETROLCHIMICO

PREMESSA Nella piena consapevolezza che la Commissione Parlamentare non può esprimere alcuna valutazione in ordine agli sviluppi dei processi per le morti bianche a Brindisi, il Forum offre le seguenti considerazioni ed i seguenti rilievi critici in merito alla richiesta di archiviazione del Procuratore della Repubblica di Brindisi depositata il 4 maggio 2004 in merito alle indagini relative a malattie e morti di dipendenti del petrolchimico e delle ditte appaltatrici verificatesi secondo i denunzianti per l’insorgenza di patologie contratte dai lavoratori a causa della loro esposizione a cloruro di vinile monomero (CVM).

Si tratta di una richiesta di archiviazione fondata sostanzialmente sul ritenuto difetto del nesso di causalità fra la detta esposizione e le malattie. Il Forum offre tali rilievi per la eventualità che possano essere utilizzati dalla Commissione in vista di possibili interventi politico-amministrativi rivolti a non aggravare (con nuovi impianti pericolosi come il rigasificatore) ed a sanare la grave situazione nella quale si trovano i lavoratori a Brindisi ed in vista anche di interventi legislativi intesi a rendere meno difficoltosa (con riferimento alla disciplina sul rapporto di causalità) la richiesta di giustizia di lavoratori che contraggono il cancro ed altri gravi malattie per la loro esposizione a sostanze inquinanti.

UN PASSO DELLA RICHIESTA DI ARCHIVIAZIONE DAL QUALE EMERGE LA GRAVITA’ NELLA QUALE SI TROVANO I LAVORATORI ED I CITTADINI DI BRINDISI

Il Procuratore della Repubblica nel sostenere il difetto di rapporto eziologico tra le morti e l’esposizione al CVM fa riferimento ai cosiddetti fattori alternativi e così si esprime mettendo in rilievo una situazione gravissima che va segnalata all’attenzione della Commissione: “”Come riferito, in precedenza, il terreno dei fattori alternativi è terreno da attraversare indenni con enormi difficoltà e lo è ancor di più in una realtà ambientale qual è quella di Brindisi, nella quale il PM procedente ritiene che la prova certa ed univoca così come richiesto dalla suprema corte di Cassazione che la patologia tumorale non si sia verificata per altre cause o per l’interazione di altri fattori, sia impossibile da acquisire, trattandosi di una realtà fisica.... nella quale insiste uno stabilimento petrolchimico, all’interno del quale vengono prodotte ed utilizzate più sostanze tossiche – basti pensare all’impiego del fosgene nel vicino impianto MDI, classificato quale gas nervino in grado di , a determinate concentrazioni, di rilevarsi letale per il polmone e , quindi, per la salute umana, di una realtà fisica nella quale insistono da decenni ben tre centrali termoelettriche alimentate con l’impiego del carbone e dell’orimulsion i cui effetti non benefici sull’organo polmonare si danno per conosciuti; di una realtà fisica nella quale in una altissima concentrazione di linee elettriche ad altissima ed alta tensione in grado di sviluppare un imponente campo elettromagnetico, sospettato da qualche anno di essere un possibile cancerogeno perchè idoneo ad alimentare il rischio di una particolare tipolgia di cancro al sistema emolinfopoietico, costituita dalla leucemia; di una realtà fisica nella quale, a qualche chilometro di distanza dal polo energetico, insiste uno dei più considerevoli agglomerati di discariche di rifiuti di qualsivoglia natura dell’intera regione Puglia; di una realtà fisica nella quale l’acqua della falda superficiale che circola a più diretto contatto con i terreni oggetto di coltura è gravemente inquinata non solo a Brindisi ma anche a più di qualche chilometro di distanza dalla città; di una realtà fisica nella quale, in questo caso come altrove, insistono i fumi del traffico veicolare””. Si tratta di un elenco allarmante ma notevolmente incompleto che dimostra comunque come a Brindisi i lavoratori e i cittadini possano morire di cancro non solo per l’esposizione a CVM ma anche perchè a contatto con numerose altre sostanze nocive.

QUALCHE RILIEVO SUL RITENUTO DIFETTO DEL NESSO CAUSALE

La richiesta di archiviazione risulta costruita su una concezione del rapporto di causalità del reato omissivo improprio erronea, inaccettabile e molto lontana dall’orientamento della sentenza dell’ 11 settembre 2002 n. 30328 delle Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione che pur viene dal Procuratore della Repubblica di Brindisi ripetutamente invocata a sostegno del suo assunto. Ed invero nella richiesta di archiviazione si dice che la Corte Suprema avrebbe ribadito che il giudice, nella ricostruzione del nesso di derivazione tra una determinata condotta ed un determinato evento, “debba avvalersi della scienza e che possa spendere a tal fine non solo leggi scientifiche di tipo universale ma anche leggi di natura probabilistica purché queste ultime esprimano una frequenza di probabilità prossima alla certezza”.

In realtà la sentenza delle Sezioni Unite dell’11 settembre 2002 non dice in alcun modo che le “leggi di natura probabilistica”, per avere rilievo penale ai fini del rapporto eziologico fra condotta omissiva ed evento, devono esprimere “una frequenza di probabilità prossima alla certezza”. Ciò che invero dicono le Sezioni Unite non è che le leggi di natura probabilistica devono presentare una frequenza prossima alla certezza ma che “non è sostenibile che si elevino a schemi di spiegazione del condizionamento necessario solo le leggi scientifiche universali e quelle statistiche che esprimono un coefficiente prossimo ad uno, cioè alla certezza”. Ed infatti le Sezioni Unite affermano testualmente “E’ indubbio che coefficienti medio-bassi di probabilità cosiddetta frequentista per tipi di evento, rilevati dalla legge statistica (ed ancor più da generalizzazioni empiriche del senso comune o da rilevazioni epidemiologiche), impongano verifiche attente e puntuali sia della fondatezza che della specifica applicabilità nella fattispecie concreta. Ma nulla esclude che anch’essi, se corroborati dal positivo riscontro probatorio, condotto secondo le cadenze tipiche della più aggiornata criteriologia medico-legale, circa la sicura non incidenza del caso di specie di altri fattori interagenti in via alternativa, possano essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale del necessario nesso di condizionamento. Viceversa, livelli elevati di probabilità statistica o schemi interpretativi dedotti da leggi di carattere universale, pur configurando un rapporto di successione tra eventi rilevato con regolarità o in numero percentualmente alto di casi, pretendono sempre che il giudice ne accerti il valore eziologico effettivo, insieme con l’irrilevanza nel caso concreto di spiegazioni diverse, controllandone quindi l’attendibilità in riferimento al singolo evento ed all’evidenza disponibile.”

E poi la Suprema Corte, ribadendo l’inattendibilità dei criteri quantitativi, afferma che “se nelle scienze la spiegazione statistica presenta spesso un carattere quantitativo, per le scienze sociali come il diritto – ove il relatum è costituito da un comportamento umano – appare, per contro, inadeguato esprimere il grado di corroborazione dell’explanandum e il risultato della stima probabilistica mediante cristallizzati coefficienti numerici, piuttosto che enunciare gli stessi in termini qualitativi”. Con la conseguenza che “rimane compito ineludibile del diritto e della conoscenza giudiziale stabilire se la postulata connessione nomologica che forma la base del libero convincimento del giudice … sia effettivamente pertinente e debba considerarsi razionalmente credibile, sì da attingere” il necessario “risultato di certezza processuale”. L’esigenza di pervenire alla necessaria (nei limiti dell’umanamente possibile) “certezza processuale” costituisce quindi la scelta di fondo che caratterizza la citata sentenza delle Sezioni Unite. E’ insomma la probabilità logica che costituisce la verifica aggiuntiva dell’impiego della legge statistica nel singolo evento e della persuasiva e razionale credibilità dell’accertamento giudiziario. Ed è per questo che le Sezioni Unite testualmente affermano: “il processo logico … deve condurre, perché sia valorizzata la funzione ascrittiva dell’imputazione causale, alla conclusione caratterizzata da un alto grado di credibilità razionale, quindi alla certezza processuale che, esclusa l’interferenza di decorsi alternativi, la condotta omissiva dell’imputato, alla luce della cornice nomologica e dei dati ontologici, è stata condizione necessaria dell’evento attribuibile perciò all’agente come fatto proprio. Ex adverso, l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza probatoria, quindi il plausibile e ragionevole dubbio, fondato su specifici elementi che in base all’evidenza disponile lo avvalorino nel caso concreto, in ordine ai meccanismi sinergici dei plurimi antecedenti, perciò sulla reale efficacia condizionante della singola condotta omissiva all’interno della rete di causazione, non può non comportare la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio …”
Il fatto è che la richiesta di archiviazione opposta finisce implicitamente per ritenere che, per la fondatezza dell’accusa, la certezza scientifica deve risultare oltre il ragionevole dubbio alterando così l’orientamento del Supremo Collegio secondo il quale invece, per l’esito assolutorio, è l’incertezza del riscontro probatorio che deve emergere al di là di ogni ragionevole dubbio. Dubbio ragionevole che può essere solo quello consistente e rilevante che perdura dopo che si è fatto ricorso a tutte le possibilità probatorie e logiche secondo i criteri della razionalità e della obiettività, possibilità probatorie e logiche che nel caso in esame non sono state attentamente e pienamente colte né adeguatamente utilizzate. Ed è il processo, proprio quel processo negato dalla richiesta di archiviazione, che si rende garante – come il PM Casson nell’atto di appello del processo di Venezia – del fatto che quando sono in gioco valori di così alto rilievo, come la libertà personale da un lato e la vita umana dall’altro, la ipotesi di colpevolezza deve essere sottoposta a valutazione non con astratti meccanismi a punteggio ma con la ricerca di tutti gli elementi probatori e con il loro ampio ed approfondito esame. In modo così da garantire non solo che l’imputato abbia la più ampia possibilità di difesa ma anche, quando è superato il dubbio ragionevole sulla sua colpevolezza, che i fini collettivi di salvaguardia di beni e valori primari siano realizzati.
E’ invero di tutta evidenza che il PM non ha sottoposto ad attenta valutazione critica le risultanze degli accertamenti tecnici disposti né ha percorso con la sua iniziativa investigativa l’intera area delle indagini esperibili. Egli, in punto di fatto, pur nell’ampiezza espositiva del suo discorso, si è in sostanza limitato a pronunciare un apodittico “ipse dixit” con riferimento al discutibilissimo esito della citata consulenza e, in diritto, ha interpretato erroneamente l’autorevole pronunciamento delle Sezioni Unite penali del Supremo Collegio, pervenendo così ad una richiesta di archiviazione che è frutto di un parere peritale assolutamente infondato e di una valutazione tecnico-giuridica del tutto inaccettabile.

CONSIDERAZIONI MEDICO SCIENTIFICHE IN ORDINE ALLA RICHIESTA DI ARCHIVIAZIONE

LA PROBABILITA’
Va innanzitutto precisato che le considerazioni ed i rilievi che possono “prima face” apparire estranee agli specifici interessi difensivi del presento atto, sono in realtà appropriati e meritano attenzione perché sono rivolti a mettere in luce l’infondatezza dell’impianto logico, delle risultanze investigative e delle argomentazioni conclusive che costituiscono il contenuto della richiesta di archiviazione formulata dal Procuratore della Repubblica di Brindisi a seguito delle indagini intese ad accertare se i lavoratori impiegati in alcuni impianti dello stabilimento petrolchimico deputati alla produzione del cloruro di vinile e del policlorulo di vinile siano stati esposti a concentrazioni di dette sostanze tali da cagionare malattie e decessi.

Più volte il PM sostiene che “ove la certezza o la quasi certezza che l’insorgenza di una determinata patologia cancerogena sia la conseguenza dell’esposizione del lavoratore a determinate sostanze è pressoché impossibile da acquisire, essendo sconosciuto tutt’ora all’uomo il processo causale della patologia cancerogena” (pag 10); che “è attualmente ignoto alla scienza medica il processo causale che porta all’insorgenza della patologia cancerogena” (pag 11) e che “la materia delle malattie professionali e, più in generale, la medicina costituiscono il classico settore nel quale in grandissimo numero di casi la spiegazione del nesso causale tra una determinata condotta ed un determinato evento non può avvalersi dell’ausilio delle leggi scientifiche di tipo universale ma deve fare leva sulle leggi scientifiche di natura probabilistica che affermano per l’appunto che in un numero di casi pari a cento ma più o meno prossimo a cento al verificarsi di un determinato evento se ne è osservata la verificazione di un altro” (pag 13). Ed a tale riguardo si fa osservare che la mancata conoscenza degli eventi biomolecolari sequenziali che in una o più cellule hanno dato origine al cancro in un singolo soggetto nulla toglie alla conoscenza scientifica della capacità di un determinato agente di produrre il cancro nell’uomo. Nessuno invero vorrà dubitare che i principi Borgia, i quali avevano impiegato nel ‘500 l’arsenico per eliminare alcuni avversari, non si debbano considerare responsabili della loro morte perchè non si conosceva la patogenesi dell’arsenico, veleno che per il suo noto effetto letale la nobile famiglia impiegava! Anche fenomeni che potrebbero sembrare governati da leggi scientifiche di tipo generale come la caduta di un ponte determinano effetti che sono legati alla probabilità del verificarsi di situazioni concomitanti non sempre prevedibili. La probabilità attiene alla vita umana nel suo complesso ed anche alle scienze cosiddette esatte. Ne è conferma nella fisica quantistica il principio di indeterminazione di Heisenberg per il quale la posizione delle particelle elementari non è misurabile con precisione se non in termini di probabilità. Probabilità e certezza, che sono confinanti e talvolta persino si sovrappongono nelle scienze naturali, spesso si intersecano e si confondono nelle scienze sociali, tra le quali va indubbiamente annoverato il diritto, con la conseguenza che in esse le leggi probabilistiche vanno valutate con la massima attenzione e col necessario approfondimento.

GLI STUDI EPIDEMIOLOGICI
Il PM ha dato incarico ad un collegio di esperti composto dai professori Candura, Poletto e Rodriguez. Alla pagina 23 della relazione peritale il Pubblico Ministero cita i lavori proposti alla sua attenzione da detto collegio ed in particolare gli studi di Mundt e di Simonato. Si premette che lo studio di Mundt citato dal PM alla pagina 36 rileva una consistente presenza di epatocarcinomi (CE) ma il PM parla solo dei 48 casi di angiosarcoma (ASF). Nella coorte americana dei lavoratori del cloruro di vinile, Wong –il lavoro di cui lo studio Mund rappresenta l’aggiornamento - dimostra che la mortalità per tumori primitivi epatici, cioè gli epatocarcinomi, rimane aumentata significativamente anche dopo aver escluso i casi di angiosarcoma. (Wong O et al. Am J I Med 1991; 20:317-334). Nella stessa coorte aggiornata, Mundt (1999) ha esteso il follow-up sino al 1995, osservando 80 tumori epatici contro 22.23 attesi ( SMR=359; 95% CI =284-446). Poiché gli angiosarcomi erano 48 degli 80 casi di tumore epatico, i casi di epatocarcinoma sono 32 contro 22.23 attesi (assumendo che tutti gli attesi fossero epatocarcinomi). Ne consegue che l’SMR di epatocarcinoma è quindi 144 con limiti di confidenza al 95% compresi fra 98-203 (Mundt KA, Dell Ld, Austin RP, et al. Occ Environ Med 2000; 57:774-781).
Lo studio Simonato, che è del 1991, è stato aggiornato e pubblicato nel 2001 a primo nome di Ward con risultanze notevolmente emendate. Restano quindi un mistero le ragioni per le quali i consulenti del PM abbiano omesso di sottoporre allo stesso l’aggiornamento dello studio Simonato pubblicato dieci anni dopo!
Circa la relazione tra esposizione a CVM e patologie tumorali epatiche è stato sostenuto da coloro che si oppongono al riconoscimento del rapporto tra CVM e CE che la letteratura scientifica esaminata fornisce evidenze ampiamente sufficienti a supportare l'ipotesi che l'esposizione prolungata a CVM può provocare l'insorgenza di angiosarcoma epatico (ASF). A detta dei CTU non altrettanto si può affermare per altre forme tumorali a carico del fegato ed in particolare per CE. Tale ipotesi - sempre a loro dire - può essere ragionevolmente sostenuta esclusivamente nei casi in cui un ruolo di principali fattori di rischio per il CE (per esempio un'infezione da virus epatico B o C) può essere escluso. A conclusioni opposte giungono però gli studi dell'Agenzia Internazionale per la Ricerca sul cancro (IARC), istituzione dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, che già nel 1987 oltre a riconoscere la relazione tra ASF e CVM concludeva : "diversi studi confermano che l'esposizione a CVM causa altre forme tumorali, vale a dire epatocarcinomi, tumori al cervello e al polmone e neoplasie del sistema emopoietico". Alle conclusioni dell'autorevole agenzia dell'OMS - che prima di rilasciare rapporti sulla cancerogenicità di una sostanza procede lungo una metodologia rigorosa e dichiarata e che negli anni successivi al 1987 non ha mai corretto queste conclusioni, come pure poteva fare dal momento che aggiorna continuamente il suo “data base” di evidenze – viene contrapposta una metanalisi (ossia una analisi di studi compiuti da più istituzioni) condotta da R. Doll (1988), noto epidemiologo e consulente Enichem, che concorderebbe sul nesso causale tra CVM e ASF ma che evidenzierebbe "la mancanza di evidenza di rischio per altre forme tumorali con un'unica eccezione per il cancro del polmone, nel caso del quale fu riscontrato, per esposizione a dosi elevate, un rischio minimo". Secondo coloro che non riconoscono un rapporto eziologico tra CVM e CE, i singoli studi avrebbero quindi maggior credito dei rapporti dello IARC e ciò non è sostenibile. Essi inoltre citano lo studio multicentrico europeo coordinato dalla IARC, pubblicato nel 1991, noto come studio Simonato, già citato, per il quale non vi sarebbe eccesso di tumori epatici diversi dall' ASF e sul quale si ritornerà in modo specifico.

Lo studio europeo (Simonato 1991) è stato recentemente oggetto – come prima accennato - di un aggiornamento (Ward 2001) nel quale si riporta che “per i 10 casi istologicamente confermati come carcinoma epatocellulare (il nostro CE , ndr) si osserva una marcata relazione dose-risposta sia con la durata dell’esposizione che con l’esposizione cumulativa, suggerendo che l’esposizione a CVM può essere associata anche con questo tumore ”. Non è corretto quindi escludere il nesso di causalità tra CVM e CE non solo perché non si può opporre uno studio singolo alle conclusioni IARC ma anche perché allo stesso studio (Ward 2001), aggiornamento di quello di Simonato, non si può attribuire una simile conclusione.

Sono forse necessarie alcune precisazioni riguardo al valore dei pronunciamenti IARC. I nuovi studi, per quanto ampi, sono una parte del tutto e si inseriscono nell’alveo degli studi precedenti; devono essere valutati da IARC nell’insieme e per cambiare una valutazione di IARC è necessario porre in essere tutto quel complesso meccanismo di approfondimento ai fini della classificazione ( o riclassificazione) di una sostanza, che costituisce proprio la garanzia della serietà e della affidabilità dei pronunciamenti di IARC. Va ribadito, invece, che i risultati di singoli studi non mettono in discussione le suddette valutazioni; bensì essi contribuiscono all’insieme delle conoscenze in modo commisurato alla loro qualità. Quando IARC si è pronunciato sul CVM, a partire dal 1975, non si è mai contraddetto e non è mai tornato sui suoi passi, pur avendo avuto modo e occasione di riaffrontare il problema-CVM; le sue valutazioni complessive sul CVM sono il frutto del lavoro di molti studiosi e ricercatori, a livello mondiale, di varia origine scientifica, compresi quelli di origine industriale; IARC non ha mai incaricato l’uno o l’altro studioso di compiere autonomi accertamenti o verifiche quasi a delegare ad un singolo un’attività di conferma (o meno) di se stesso.

Quanti sostengono la mancanza di relazione tra epatocarcinoma e CVM citano, a Brindisi come a Marghera, due studi: quello di Mundt (2000) del quale riportano lo stretto rapporto tra CVM e ASF che nulla riferisce sul nesso di causalità con l'altro tipo di tumore epatico ed il già citato studio multicentrico europeo di Simonato (1991). E' necessario precisare che lo studio multicentrico europeo coordinato da IARC e condotto da Simonato (1991) e lo studio sulle coorti americane condotto da Wong (1991) sono stati successivamente aggiornati rispettivamente da Ward (2001) e da Mundt (2000).

A riguardo dello studio Simonato si è già detto che è stato aggiornato nel 2001 con pubblicazione a primo nome di Ward. Tale studio è sintetizzato dal dott. Pietro Comba, Direttore del Laboratorio di Igiene Ambientale dell'Istituto Superiore di Sanità in una consulenza al PM che in una revisione della letteratura, nella parte riguardante gli epatocarcinomi si esprime nei seguenti termini: "Per quanto riguarda il carcinoma epatocellulare l'osservazione più recente è quella dell'aggiornamento dello studio multicentrico europeo (Ward et al 2001) che, per i 10 casi osservati, mostra una relazione dose-risposta sia per durata dell'esposizione che per esposizione cumulativa a CVM con un rischio circa triplo a partire dalla categoria di esposizione cumulativa 735-2379 ppm-anno. Tale risultato è in accordo con segnalazioni di casi pubblicate a partire dalla metà degli anni '70 e con analoghe osservazioni nell'ambito delle coorti italiane (Pirastu et al 1990), con il follow up di lavoratori tedeschi esposti ad elevati livelli di CVM (Lelbach 1996) e con le più recenti indagini condotte a Taiwan precisamente uno studio caso controllo (Du & Wang 1998) ed uno studio retrospettivo di mortalità (Wong et al 2002). La plausibilità biologica dello sviluppo di epatocarcinomi è sostenuta da osservazioni su roditori (Drew 1983, Maltoni & Cotti 1988); inoltre in 11 di 18 casi esposti a CVM sono state rilevate mutazioni del gene p53 (Weihrauch et al 2000). La persuasività scientifica dell'evidenza epidemiologica relativa all'associazione tra CVM ed epatocarcinoma, integrata da considerazioni sulla congruità della durata dell'esposizione, può essere pertanto considerata molto elevata e consente di sostenere che il cloruro di vinile monomero ha svolto un ruolo eziologico determinante nell'insorgenza di casi di neoplasia epatica insorti nei soggetti esposti ".

Risulta poi davvero apodittica l'affermazione di chi sostiene che non è mai stato dimostrato con certezza che il CVM induca nella specie umana tumori extraepatici. Questa affermazione è smentita ancora una volta dalla IARC fin dal 1987. A questo riguardo viene incontro la citata sintesi del dott Comba sulla evidenza e sulla probabilità d'insorgenza di differenti tipi di tumore negli esposti al CVM. "L'evidenza epidemiologica relativa all'associazione tra esposizione a CVM e tumore del polmone può essere così riassunta. Nelle coorti che hanno condotto un'analisi specifica per gli insaccatori definiti come "solo addetti all'insacco" e "addetti all'insacco" esposti a elevati livelli di polvere di PVC si sono identificati incrementi di mortalità. Pertanto sulla base dei dati epidemiologici la persuasività scientifica della relazione causale fra l'attività lavorativa che comporta esposizione a polveri di PVC è elevata seppur gli studi non permettono di distinguere se tale effetto sia dovuto a CVM come tale o alla polvere di PVC". E ancora "La mortalità osservata per tumore dell'encefalo supera l'attesa pressocché nella totalità degli studi che riportano i risultati per questa causa. L'aggiornamento dello studio europeo (Ward 2001 Epidemiology, 2001 Nov;12(6):710-8. Update of the follow-up of mortality and cancer incidence among European workers employed in the vinyl chloride industry.Ward E, Boffetta P, Andersen A, Colin D, Comba P, Deddens JA, De Santis M, Engholm G, Hagmar L, Langard S, Lundberg I, McElvenny D, Pirastu R, Sali D,Simonato L.Unit of Environmental Cancer Epidemiology, International Agency for Research onCancer, Lyon, France) non rileva tendenze della mortalità per durata, latenza ed esposizione cumulativa, lo studio USA (Mundt 2000) non osserva tendenze per decade di follow up ma la mortalità nel decennio 1970-1979 mostra un picco analogamente a quanto si verifica per il tumore del fegato. L'assenza per il tumore dell'encefalo di andamenti per variabili temporali e di esposizione insieme al fatto che il numero degli osservati è spesso esiguo sono i principali limiti dei dati epidemiologici disponibili ai fini dell'attribuzione di un ruolo causale dell'esposizione a CVM nello sviluppo di questo tumore. Si può pertanto concludere che l'evidenza epidemiologica suggerisce un aumento di rischio per tumore dell'encefalo in relazione all'esposizione a CVM… Per quanto concerne la mortalità per tumori del sistema linfoemopoietico, l'eterogeneità clinica e patologica di questa categoria di neoplasie può contribuire alla scarsa riproducibilità di risultati di studi diversi…Si può pertanto concludere che l'evidenza epidemiologica suggerisce un aumento di rischio per tumore del sistema emolinfopoietico in relazione all'esposizione al CVM".

Sempre i sostenitori della mancanza di causalità tra CVM e CE asseriscono che sia anche da escludere che tale esposizione (CVM) possa indurre la cirrosi e la successiva evoluzione in senso neoplastico. Tale affermazione è scientificamente infondata. E' proprio nell'aggiornamento dello studio europeo di Ward che si rinviene la risposta a tale questione. Infatti scopo dell'aggiornamento era quello anche di verificare il potenziale collegamento tra l'esposizione al CVM e i decessi per malattie epatiche non maligne e in particolar modo la cirrosi. Lo studio ha accertato un aumento di mortalità a causa di cirrosi epatica associata a livelli di esposizione da moderati ad alti riscontrato nel gruppo ad alto rischio nei vari paesi e in particolare tra i lavoratori che avevano lavorato per un certo periodo come autoclavisti. Nella coorte di Porto Marghera, collezionata ed esaminata dai periti del dott Casson a Venezia ed aggiornata al 1999, risulta una mortalità per cirrosi superiore all’attesa fra gli autoclavisti (SMR 139, 6 oss, IC 90% 60.6-274.6).

Si deve inoltre rilevare che il ruolo del CVM e dell'alcool nella genesi dell'epatocarcinoma è completamente differente. Secondo il classico modello della cancerogenesi a stadi (iniziazione-promozione), il CVM è da ritenersi con tutta verosimiglianza un “iniziante”, vale a dire una sostanza genotossica, in grado di indurre mutazioni nel DNA. L’etanolo è invece interpretato come co-cancerogeno, o sostanza che facilita l’insorgenza di tumori in associazione con agenti inizianti come il virus dell’epatite B o il CVM. Queste conoscenze indicano: (a) che etanolo e CVM hanno diversi meccanismi d’azione, e che difficilmente il primo interferisce direttamente con l’azione del secondo; (b) un’eventuale interferenza è da interpretarsi come una modificazione d’effetto, o potenziamento, dell’attività cancerogena del CVM da parte dell’etanolo.

Esiste una variabilità genetica tra gli esposti a CVM, che condiziona la risposta ad esso; in particolare, è verosimile che tale variabilità condizioni la sensibilità alle basse dosi di esposizione. Questo è uno degli argomenti che consentono di escludere l’esistenza di una soglia per l’azione cancerogena del CVM: poiché esiste uno spettro di suscettibilità all’azione della sostanza, si può ipotizzare che vi siano individui con una propensione a sviluppare un tumore anche a livelli molto bassi di esposizione. Sempre con riferimento alle neoplasie polmonari si fa osservare che nello studio Simonato, citato dal PM, l’incremento di mortalità per tumore del polmone è concentrato tra gli addetti alla produzione di CVM tra i quali si osservano 5 casi con un SMR pari 486, cioè quasi cinque volte l’atteso. Nell’aggiornamento della coorte (Ward 2000) tra coloro che hanno svolto unicamente la mansione di insaccatore l’analisi di mortalità basata su 30 casi mostra un trend positivo e significativo per categorie crescenti di esposizione cumulativa a CVM; nelle categorie di 0-35, 35-100, 100-536, 536-2812 e 2812 e più ppm-anno i valori dell’SMR sono rispettivamente pari a 0.88 (5 oss), 128 (6 oss), 163 (11 oss), 137 (4 oss) e 312 (4 oss) i risultati sono analoghi applicando un lagging di 15 anni.

In relazione ad alcuni lavori citati dal PM si ritiene di dover evidenziare che sia R. Doll, citato per contraddire la IARC sulla dimostrata relazione tra CVM e neoplasie extraepatiche tra cui quelle polmonari (pag 26), che Mclaughlin citato per sottolineare la relazione esclusiva tra CVM e angiosarcoma (pag 41) e per minimizzare il rapporto tra CVM e tumori del sistema emolinfopoietico (pag 50) non sono ricercatori indipendenti dall’industria. A questo riguardo si riporta quanto scritto dal PM dott. Casson nell’appello alla sentenza del Tribunale di Venezia. “Se qualificati organismi internazionali come IARC ed EPA (che esprimono valutazioni che sono il risultato del lavoro dei maggiori esperti mondiali) e se i risultati dei singoli studi epidemiologici documentano un rischio per la salute dei lavoratori e’ legittima la domanda sul perchè si continuino a trovare nella letteratura scientifica articoli di commento che non sono in armonia con lo stato delle conoscenze. Questo fatto ha esclusivamente a che fare con una legittima variabilità nella interpretazione degli stessi dati o, se questo non e’ il caso, possono entrare in gioco altri fattori? Ad esempio, la rassegna di McLaughlin del 1999, epidemiologo statunitense, conclude nel senso che l’esposizione professionale a cloruro di vinile non è causalmente associata ad alcun effetto avverso, tranne il raro angiosarcoma. E’ facile e semplice, però, rilevare che questa affermazione e’ resa possibile dal fatto che gli autori, molto banalmente, omettono di fare riferimento a numerose indagini che non corroborano la loro tesi: alla faccia di ogni serietà scientifica. Inoltre, per il rischio di cancro polmonare essi non menzionano neppure le valutazioni degli organismi internazionali (IARC, EPA) e la problematica legata all’inalazione di polveri di PVC trattata in singoli studi epidemiologici. A ciò si aggiunga il fatto che McLaughlin è consulente di Enichem nell’ambito del nostro processo e che attualmente è presidente dell’International Epidemiology Institute, azienda privata che ha fra le sue attività la consulenza epidemiologica nelle sedi giudiziarie per conto delle aziende. Anche nel processo di Porto Marghera la linea Enichem e di Montedison e’ stata quella di sostenere che l’unico tumore dovuto all’esposizione a CVM è l’angiosarcoma epatico e l’azienda ha chiamato in aiuto per il sostegno di questa posizione anche noti e ben pagati epidemiologi stranieri, tra cui Richard Doll, al quale Enichem ha dato mandato di sostenere che l’angiosarcoma epatico e’ l’unico tumore causalmente associato con l’esposizione a CVM (come risulta dalla documentazione in atti e in particolare da quella acquisita durante la Commissione Rogatoria Internazionale in Gran Bretagna).”

L’EPIDEMIOLOGIA e LA CAUSALITA’ nel SINGOLO CASO
Il PM a pagina 29 sostiene che “l’epidemiologia si astiene, non potendolo obiettivamente fare, dall’indicare quali di questi casi di cancro al fegato (in eccesso rispetto a quelli verificatisi nel gruppo dei non esposti, ndr) sarebbero comunque emersi e quali invece sono da ricollegarsi alla specifica esposizione alla sostanza tossica”. Oltre a rilevare che questo è compito del giudice e non della epidemiologia, va osservato che i CTU omettono di portare a conoscenza del PM che esiste una concreta possibilità a livello scientifico di applicare ad un particolare individuo una relazione causale nota a livello di popolazione, in accordo con Checkoway, mediante il calcolo della “probability of causation”. Si assume che un soggetto sia sottoposto contemporaneamente a due rischi, l’uno generico e l’altro specifico. L’indicatore del primo è l’età, l’indicatore del secondo è un fattore di rischio professionale. La probability of causation (PC) è: PC = PE /( PE + P0) dove: P0 è la probabilità di malattia dovuta all’età; PE la probabilità di malattia dovuta all’esposizione professionale. Quando PC è superiore a 50%, secondo Checkoway, “a court might consider exposure to be the cause of death, or at least more likely than not to be the cause” cioè “ una corte potrebbe considerare l’esposizione la causa di morte o almeno più probabilmente che non ne sia la causa”. Poiché la PC è tanto maggiore quanto minore è l’età del soggetto alla diagnosi di cancro polmonare allora, nella grande maggioranza dei casi, o la malattia non si sarebbe mai manifestata in assenza dell’esposizione o, quanto meno, l’esposizione professionale ha anticipato la comparsa della malattia e della morte per cancro polmonare.

LA MANCANZA DEGLI ANGIOSARCOMI NELLA COORTE DI BRINDISI
Alla pagine 113 il PM sottolinea che “l’acquisizione della documentazione presso l’AO Di Summa consentiva di acclarare che non era mai stata fatta diagnosi di angiosarcoma epatica”. Dalla consulenza del Prof Maltoni non risulta che i casi di tumore epatico siano stati sottoposti a revisione istologica. Questa procedura sarebbe stata necessaria per la difficoltà di giungere ad una diagnosi di un tumore così raro come l’angiosarcoma se non vi sia nel medico patologo esaminatore un orientamento alla ricerca dello specifico tipo istologico sotto la suggestione della conoscenza dell’anamnesi lavorativa. Inoltre la ricerca presso l’Azienda Ospedaliera Di Summa effettuata dal PM non è di grande utilità al fine della ricerca di tutti i casi di angiosarcoma epatico e ciò per le seguenti ragioni. Presso la predetta Azienda Ospedaliera non si effettuano tutt’oggi agobiopsie epatiche. Al suo Servizio di anatomia patologica non afferivano fino a circa un anno fa tutti i prelievi istopatologici del territorio provinciale. Per la patologia neoplastica è ben noto il fenomeno della migrazione sanitaria per il quale i nostri concittadini si recano in centri di altre province e più spesso di altre Regioni per la diagnosi e la cura di così gravi malattie. La mancanza di revisione dei preparati istologici sia da parte di Maltoni che da parte del collegio degli esperti di medicina legale, che prendono solo atto dei referti istologici, quando presenti, nella documentazione in atti. Non è stato verificato se accanto a forme epatocellulari vi fossero forme angiosarcomatose come è stato dimostrato nella casistica seguita per 25 anni dal Dipartimento di Medicina dell’università di Bonn. (Lelbach K, A 25-year follow-up study of heavily esposed vinyl chloride workers in Germany, Am Ind Med 29: 446-458, 1996).

E’ allora necessario acquisire tutti i preparati istologici sia bioptici e sia agobioptici per sottoporli a revisione da parte di esperti anatomopatologi.

LO STUDIO DI COORTE CONDOTTO DAL PROF MALTONI E L’ATTENDIBILITA’ DELLO STESSO
Il PM ricava dallo studio di coorte del Prof Maltoni l’evidenza che la mortalità generale del gruppo operaio è inferiore a quella della popolazione generale secondo l’effetto “lavoratore sano”, un deficit di tumori polmonari (probabilmete intende dire di mortalità per tumori polmonari) e di mortalità per tumori in generale rispetto a quella della popolazione pugliese. Lo studio Maltoni è stato consegnato nel 2000 e cessa la sua osservazione nel 1998. Nel 2001 il Prof Maltoni è deceduto e il PM ha chiamato come consulenti il Dott. Pietro Comba e la dott.ssa Roberta Pirastu dell’Istituto Superiore di sanità. Il Prof Maltoni, che è un noto oncologo sperimentale, si avvalse, come è scritto nel suo elaborato peritale, proprio dei due ricercatori Comba e Pirastu per l’analisi dei dati proprio per non essere stato egli mai impegnato come epidemiologo. Quando i due ricercatori furono chiamati dal PM nel 2001 gli indirizzarono una lettera datata 30.3.2001 con la quale chiedevano l’aggiornamento della mortalità della coorte Enichem. Bisogna a riguardo precisare che a seguito dell’introduzione della legislazione del 1982 relativa all’impiego del CVM fu costituita presso l’Istituto Superiore di sanità una coorte dei lavoratori del CVM in tutti gli stabilimenti interessati dalla lavorazione ed infatti nel 1991 la dott.ssa Pirastu pubblicò il primo lavoro sullo stato di salute di questa coorte comprendente anche Brindisi. I due ricercatori informavano il PM che vi erano, ad una prima analisi, errori nella consulenza Maltoni: “Segnaliamo – essi scrivevano - che un confronto anche parziale delle due basi di dati disponibili, ‘coorte Istituto Superiore di Sanità’ e tabelle 5-8 – appendice 1.A e 1.B della consulenza tecnica Maltoni (giugno 2000) ha evidenziato una discordanza su sei seguenti soggetti che risultano deceduti nella coorte ISS, mentre sono vivi nella consulenza tecnica Maltoni”.
E seguono i sei nominativi. Ma c’è di più. I due noti epidemiologi chiedevano di “consentire il chiarimento di questioni attinenti la fonte dei dati individuali dei membri della coorte, i criteri di inclusione dei soggetti nella stessa, come anche le procedure di categorizzazione dell’esposizione”. Ed osservavano: “su questo ultimo punto, dato che uno degli obiettivi dell’indagine è quello di valutare l’esposizione a PVC, ricordiamo che le classi di rischio utilizzate nella Consulenza Tecnica Maltoni si riferiscono essenzialmente all’esposizione a CVM e che le informazioni nella coorte ISS sono state fornite dall’azienda e devono essere anch’esse sottoposte a controlli, è necessario ritornare ai dati originali individuali”.
A questa richiesta non è stato dato corso sebbene la disponibilità dei due scienziati epidemiologi avrebbe consentito un aggiornamento ed una verifica della CTU Maltoni. Non sarà un caso che la dott.ssa Pirastu si dimise dopo pochi mesi dall’incarico mentre il dott. Comba non lo fece e gli fu richiesta dal PM nel settembre 2002 una revisione della letteratura che, come sopra esplicitato, pur avendo portato elementi discordanti rispetto al collegio Candura, Poletti e Rodriguez non è stata tenuta alcuna considerazione. Per avere un’idea della portata degli esperti che il PM aveva a disposizione, si fa osservare che Comba e Pirastu hanno pubblicato su riviste scientifiche di importanza mondiale numerosi lavori sul CVM e PVC e sono coautori dello studio Simonato e dello studio Ward, mentre non è possibile rinvenire – e lo si afferma come dato oggettivo e col massimo rispetto verso gli interessati - traccia di una pur minima pubblicazione sullo stesso argomento da parte dei consulenti Candura, Poletti e Rodriguez. Va poi rilevato che il prof. Rodriguez mentre a Brindisi ha negato il nesso eziologico per alcuni epatocarcinomi in presenza di consumo di alcool ha sostenuto tale nesso in un analogo caso dinanzi al tribunale di Venezia dove, durante l’esame svoltosi nell’udienza del 13 ottobre 1998, dichiarava testualmente: “Qui abbiamo un periodo di esposizione, tra un'azione specifica come l'autoclavista, che per esempio non è stato particolarmente lungo, ma però riteniamo che sia idoneo eventualmente col fattore concausale segnalato dell'assunzione di alcool ad avere determinato, in capo al periodo in cui l'ha determinato, la patologia che è stata segnalata di epatocarcinoma”.

Per tornare a Maltoni va rilevato che nel suo studio non si rinviene un eccesso di tumori al polmone perchè il predetto professore non ha esaminato separatamente il gruppo degli insaccatori, quelli più esposti alle polveri di PVC che avevano spesso una granulometria disomogenea e comprendevano anche polveri di diametro compatibile con la loro inanalzione sin nelle più basse vie aeree. Questo è facilmente desumibile dalla tabella 64 dove il tumore al polmone mostra un SMR di 55 (IC 18-129) ma l’analisi racchiude le classi 4 e 5 ( secondo la categorizzazione di Maltoni che Comba e Pirastu chiedono invano di chiarire) ossia un misto di “lavoratori addetti alla polimerizzazione in generale e all’immagazzinamento e stoccaggio di PVC” e “lavoratori addetti alla polimerizzazione che hanno lavorato nelle autoclavi”. Nulla quindi ha indagato Maltoni sulla categoria degli “insaccatori” che presenta notoriamente un eccesso di tumori polmonari tanto da essere riportato anche nel “Trattato di medicina del Lavoro” di Sartorelli del 1981!. Questo dato è stato recentemente confermato dall’aggiornamento della mortalità della coorte dei lavoratori del CVM e PVC dello stabilimento di Porto Marghera pubblicato sul numero di luglio-agosto (anno 17 n. 4 pag 221-225) della rivista “Epidemiologia&Prevenzione” da parte di alcuni ricercatori dell’istituto nazionale per la Ricerca sul Cancro di genova e del Registro Tumori del Canton Ticino di Locarno (Svizzera). Lo studio in questione costituisce una novità rispetto agli altri studi di coorte perchè a differenza di altre analisi occupazionali sinora condotte confronta i dati emergenti da ogni gruppo di lavortori esaminato non con la popolazione generale, come Maltoni ha fatto a Brindisi, bensì con un gruppo di confronto costituito da lavoratori non esposti della stessa azienda composto da tecnici ed impiegati. Da tale comparazione emerge che la mortalità per tutte le cause e per tutti i tumori è aumentata negli esposti rispetto ai non esposti. Questo dato non era mai emerso nei confronti tra esposti e popolazione dal momento che – come è noto – gli esposti, nella specie i lavoratori, costituiscono un’area di soggetti complessivamente più in salute rispetto a quelli dell’intera popolazione che ovviamente comprende anche numerosi individui anziani e comunque esposti al rischio di contrarre malattie tumorali. Quindi a Porto Marghera scompare l’effetto lavoratore sano di cui parla anche il PM. Il rischio di tumori polmonari negli insaccatori è di tre volte maggiore rispetto ai non esposti. Negli autoclavisti, i lavoratori addetti alla pulizia delle autoclavi, è stato registrato un eccesso significativo di mortalità per tumori del fegato, per cirrosi epatica.

Alla luce di quanto riportato è evidente che il PM non poteva conoscere nulla degli effetti sulla salute delle esposizioni specifiche al CVM e al PVC perchè le fonti dei dati erano aziendali e non verificate e la categorizzazione dei lavoratori operata da Maltoni era incongrua rispetto ai rischi specifici di ciascuna lavorazione con il CVM o con il suo polimero PVC.

ALTRE PATOLOGIE CORRELATE AL CVM E AD ALTRI CANCEROGENI RILEVATI DA MALTONI
Maltoni ha trovato comunque nel gruppo esaminato 83 casi di acrosteolisi, lavoratori con le falangi terminali delle dita delle mani e dei piedi frammentate da elevate esposizioni al CVM. Sono 75 le diagnosi eseguite dal 1974 in poi, anno in cui sarebbero stati abbassati, a detta di Maltoni, i livelli di esposizione, e 66 dopo il 74. Non può dire Maltoni quante di queste 66 siano insorte non diagnosticate prima del 1974. Perchè il PM non ha proceduto per i casi diagnosticati prima del 1974? Non valgono per queste lesioni le considerazioni, pur contestate da questa difesa, svolte per il tumore dal PM nelle pagine 123 e 124 della richiesta di archiviazione perchè i tumori sono eventi probabilistici mentre l’acrosteolisi è un evento deterministico cioè sicuramente prevenibile riducendo i livelli di esposizione e sicuramente, di contro, determinabile superando gli stessi. Il PM non coglie neppure l’indicazione fornitagli da Maltoni che parla chiaramente di livelli espositi in riferimento a queste lesioni ben sapendo che tali lesioni possono essere evitate a basse esposizioni. Siamo quindi in un tipo di causalità proprio del tipo invocato dal PM per stabilire una colpa in tema di malattie professionali, perchè riguardo alla patogenesi dell’acrosteolisi sappiamo moltissimo se non tutto!. Lo stesso dicasi per i casi di malattia di Raynaud (2 casi) e sclerodermia (4 casi) sicuramente correlati al CVM secondo lo stesso meccanismo deterministico. Sono stati rilevati poi 18 casi di asbestosi e 4 casi di mesotelioma di cui uno peritoneale. Il PM non ha ritenuto di procedere neppure con riferimento delle lesioni asbestosiche che non sono lesioni tumorali e si producono con meccanismo deterministico, cioè con soglia come sopra detto, e solo in condizioni di elevate concentrazioni di fibre di amianto, condizioni che non sono certo ubiquitarie come il PM sostiene ma ben dimostrate nelle attività che richiedono coibentazione quali quelle svolte dalle citate ditte all’interno del petrolchimico. L’asbestosi e la sua relazione con elevate concentrazioni di fibre di amainto sono note fin dall’inizio del 1900! Quanto al mesotelioma pleurico si consideri che tale tumore è definito “evento sentinella” e la sua refertazione all’autorità giudiziaria è obbligatoria perchè quasi sempre è correlabile ad esposizione ad amianto. La compresenza di asbestosi nello stesso ambiente di lavoro dimostra che si è stati in presenza di concentrazioni elevatissime della fibre. La motivazione con cui il PM trascura i mesoteliomi e le altre patologie non neoplastiche è scientificamente infondate.

L’EPATOCARCINOMA E GLI ALTRI FATTORI DI RISCHIO
Dopo aver omesso di citare le consolidate evidenze circa il rapporto di causalità tra epatocarcinoma (CE) ed esposzione a CVM, il PM alle pagine 40 e 41 della richiesta cita due studi, quello di Burgeois (2001) e Saurin (1997), a sostegno della tesi per la quale un epatocarcinoma può essere attribuito al CVM “solo nei casi in cui possono essere esclusi i principali fattori di rischio per il CE sui quali è necessario soffermarsi.

A proposito dello studio di Nadine Burgeois il PM si limita a citare il dato, dallo stesso tratto per l’esattezza dalla pagina 29 del lavoro, secondo cui “la cirrosi, che spesso è conseguenza di una infezione o di un prolungato abuso di alcool, ha una prevalenza stimata di 2000 casi per 1 milione nei paesi occidentali” e subito dopo afferma “la conclusione a cui giunge questo autore è che solo nei casi in cui possono essere esclusi i principali fattori di rischio per il CE sopra elencati si può prendere in considerazione l’ipotesi di una relazione causale con l’esposizione a CVM. Di tutti i casi esaminati dall’autore e citati nella sua pubblicazione solo due, tuttavia, presentano questa caratteristica ( e qui si cita il lavoro di Saurin, ndr) mentre negli altri casi non è stato possibile escludere l’eventuale ruolo dei citati fattori”. I due casi che la Buorgeois prende dal lavoro di Saurin et al. Sono i più recenti (1997) di una lunga serie nella quale i più antichi risalgono al 1976, epoca in cui il virus C era semplicemente sconosciuto. Il paragrafo in cui sono inclusi i casi di Saurin è intitolato: “Analisi dei casi di epatocarcinoma pubblicati, probabilmente correlati al CVM”. E l’esordio è di questo tono: “Sedici casi umani di epatocarcinoma devono considerarsi come dovuti a CVM (tabella 3)” In ogni caso il lavoro ammette che l’epatocarcinoma, come l’angiosarcoma, sia provocato dal CVM.

L’esempio che qui si riporta aiuta a dimostrare come incompleta e fuorviante sia la citazione delle fonti per quanto, come già indicato, di valore metodologico inferiore ai più aggiornati studi multicentrici ed allo IARC. Nadine Buorgeois infatti indica l’esistenza di “lesioni caratteristiche di malattia correlata al CVM come l’iperplasia epatocitaria o mista, dilatazione dei sinusioidi, fibrosi sub capsulare e sinusoidale”. Esistono cioè lesioni istologiche caratteristiche della tossicità del CVM rilevabili nel tessuto peritumorale che l’indagine non ha disposto di rilevare sui preparati istologici dei casi esaminati sebbene ne avesse nozione. Inoltre a pagine 32 del suo lavoro l’autrice, proprio nelle invocate conclusioni, afferma testualmente: “In un lavoratore del CVM che soffra di una cirrosi alcolica o virale la diagnosi di epatocarcinoma è più spesso correlata all’alcool o al virus più che alla tossicità del CVM a meno che le tipiche lesioni epatiche della tossicità del CVM siano trovate nel fegato peritumorale”

Inoltre la richiesta di archiviazione ignora le potenti evidenze che provengono uno studio caso controllo pubblicato sul Journal of Enviromental Medicine (45, 379-383, 2003) a primo nome di Wong nel quale si confronta il rischio dei lavoratori del CVM rispetto a soggetti non esposti nel caso che sia presente o non sia presente l’infezione epatitica da virus B. Nel caso non vi sia infezione da virus B gli autoclavisti mostrano un rischio di morire di epatocarcinoma 4 volte superiore rispetto ai soggetti non esposti al cloruro di vinile, mentre nel caso sia presente infezione da virus B il rischio di morte è 396 volte superiore negli autoclavisti rispetto ai non esposti!

Da qui si deduce che l’azione concuasale del CVM nella produzione del cancro epatocellulare negli esposti al CVM è di tipo moltiplicativo e non solo di tipo additivo.

Queste fonti bibliografiche, comprese quelle citate dal PM, induco a considerare necessarie ulteriori indagini sui preparati istologici per rilevare nei casi di epatocarcinomi le caratteristiche istologiche tipiche della tossicità da CVM.

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