Brindisi, 31/08/2009

Le linee programmatiche del Sindaco Mennitti

Di seguito riportiamo integralmente l'inervento del Sindaco di Brindisi Domenico Mennitti nel Consiglio Comunale di lunedì 31 agosto 2009 per illustrare le linee programmatiche dell'Amministrazione Comunale.

Signori Consiglieri,
Il “disguido” – chiamiamolo così, con una punta di ottimismo – verificatosi nel corso della seduta inaugurale della consiliatura e che mi ha indotto a rinviare la illustrazione delle linee programmatiche, consente di arricchire il dibattito di qualche riflessione ulteriore, maturata nel corso di un mese – agosto - che tutti immaginiamo tranquillo e che, invece, spesso produce fenomeni politici di notevole interesse.
Avendo consegnato a tutti voi le linee programmatiche con il dettaglio degli obiettivi che l’Amministrazione si prefigge di conseguire e persino con la indicazione dei tempi entro i quali le azioni amministrative puntano a realizzarsi, mi sembra utile qui riferire alcune considerazioni politiche generali, che intendo indicare come linee-guida per me inderogabili.
Nel corso della seduta precedente ho fatto riferimento alla necessità di recuperare nell’esercizio del nostro mandato alcune fondamentali regole di comportamento.
Comportamento politico – preciso – perchè su quanto riguarda la sfera personale so bene di non avere alcun titolo ad intervenire. Peraltro sul tema del recupero delle regole personalmente ho giocato nella recente campagna elettorale una partita che non esito a definire decisiva e ritengo, secondo verità, di poter esprimere un giudizio positivo sull’esito di quella sfida. Gli elettori hanno mostrato di apprezzare la chiarezza.

LA “ QUESTIONE POLITICA “
Bene: oggi, in questo Consiglio, io propongo a tutti il tema del ritorno alla politica, intesa come volontà condivisa di ricostruire il complesso dei luoghi e dei soggetti che individuano le istituzioni come le sedi deputate ad ospitare il confronto democratico. Per noi questa sede consiliare è lo spazio pubblico dove si deve svolgere in forma trasparente il dibattito, si debbono compiere le scelte ed assumere le decisioni.
Non coltivo l’aspirazione di restituire alla vecchia politica l’onore perduto. Se lo ha perduto, in fondo, non è perché un destino cinico e baro abbia voluto privarla di un attributo importante, piuttosto perché comportamenti inadeguati e scorretti ne hanno minato alle fondamenta la legittimità. E tuttavia contro la cattiva politica si deve combattere: nessuno può pensare di amministrare la cosa pubblica come fosse un affare di gruppi, di famiglie o addirittura di persone. La confusione tra pubblico e privato degrada la funzione di chi amministra beni, ma pure esprime valori, che appartengono alla sfera del patrimonio complessivo di una comunità.
Non sono questioni che si possono liquidare etichettandole come “locali”, nel senso che il fenomeno (che si manifesta nelle forme della prevaricazione, del clientelismo sino alla corruzione ) ha proporzioni nazionali e si riscontra, stando alle cronache, più o meno pressante in tutto il mondo. L’abuso dell’aggettivo “globale” non riduce però l’ambito della responsabilità personale. Non produce effetti l’atteggiamento di chi vive di nostalgia del tempo passato ed auspica il riscatto ad opera però di altri, di chi dovrebbe – non si comprende da quale pulpito – indicare strade virtuose. Ognuno di noi può, deve offrire un contributo, un esempio che può stimolare attenzione e magari emulazione. Il nostro Consiglio Comunale – non so quanti si siano soffermati a considerare il dato – rispetto al precedente è cambiato nella espressione politica ed anche in quella personale più di quanto mediamente accade. Non intendo evidenziare meriti o demeriti di gruppi e di persone, soltanto rilevare che è intensa la ricerca da parte dei cittadini di una rappresentanza adeguata alle esigenze di un efficiente ed onesto governo della cosa pubblica.
Noi, che siamo appunto i rappresentanti dei cittadini, dobbiamo farci carico di questa esigenza e dobbiamo adoperarci a superare i limiti di coraggio che ci hanno indotto ad assistere supinamente ( talvolta addirittura con ammirazione e compiacimento ) ad attività peripatetiche che, quando si verificano in misura elevata ( come è accaduto nella scorsa consiliatura ) , non sono neppure più riconducibili a quell’antico malessere della politica – in particolare di quella meridionale – che si chiama trasformismo. I peccati che dobbiamo farci perdonare ( e dobbiamo impegnarci a non compierne più ) sono soprattutto di omissione, nel senso che abbiamo accettato il fenomeno del nomadismo politico considerandolo un ineluttabile segno dei tempi. Esso invece segna moralmente una stagione politica e proietta ombre lunghe sul futuro di una comunità.
Io qui vorrei stringere un patto ( il cui rispetto impone rigore soprattutto alla maggioranza ) che da un lato non disperda il riferimento alle ragioni politiche che hanno determinato la elezione di un consigliere; dall’altro salvaguardi la libertà di scelta dei singoli. Non si tratta perciò di abolire il diritto a cambiare idea, però un gesto di rottura diventa espressione di libertà se non è strumentale all’acquisizione immediata di un ruolo di potere. La ricetta che propongo non è disciplinare, piuttosto di recupero della coscienza politica.
Sull’altro piatto va rispettata la legittimità del dissenso, persino l’ipotesi che un consigliere compia con trasparenza atti di condivisione di tesi espresse da gruppi opposti, senza che questo comportamento generi il sospetto di una operazione di compromesso, che il gergo politico traduce nell’ingiuriosa definizione di “inciucio”. Chiedo a questo Consiglio di dare un segnale di rigenerazione dell’impegno politico, unica risorsa per non scadere nei conflitti personali. Accettare come ineluttabile la pratica di acquisire eletti invece che elettori sarebbe il segnale anche della sconfitta personale di ciascuno di noi, sarebbe una scelta da vinti.
Cito la dichiarazione di un personaggio al quale guardo con attenzione ma quasi mai con condivisione . E’ di Walter Veltroni e mi piace ripeterla perché le generazioni politiche sono più legate alle esperienze vissute che all’anagrafe. Recita: “meglio perdere che perdersi”. In politica si può perdere con onore e da una sconfitta si può risorgere; se si smarrisce il rapporto con i propri elettori e con la propria coscienza si rinuncia anche ad ogni possibilità di riscatto.

BRINDISI NEL QUADRO DELLA “QUESTIONE MERIDIONALE”
La crisi della politica non è un dato settoriale, e perciò parziale, della vita pubblica. Essa, quando produce incrostazioni strutturali, è destinata a coinvolgere l’intera attività umana, pervadendo di sé tutto il tessuto di una comunità. La grande crisi, che sta rendendo il nostro dinamicissimo mondo una palude, non segnala solo la inadeguatezza delle tradizionali teorie economiche a governare fenomeni mai prima verificatisi. Noi siamo soliti, quando ci imbattiamo in qualcosa che non conosciamo, ricorrere al passato, alla nostra esperienza culturale, convinti che dentro la vecchia, fornitissima biblioteca ci sia di sicuro un testo al quale richiamarsi, una ricetta da riproporre. Questa volta non è così, perché la crisi è l’indicatore dell’esaurimento di quella che un tempo si chiamava “spinta propulsiva” delle teorie regolatrici della vita pubblica.
L’Italia, insieme al resto del mondo, volge smarrita intorno lo sguardo nella speranza di capire di più, di intendere quali sono i parametri nuovi per misurare la povertà e la ricchezza e quali sono i percorsi da intraprendere per sconfiggere la prima e guadagnare la seconda Ovviamente anche noi brindisini siamo protagonisti e vittime del fenomeno e lo viviamo sulla nostra pelle come cittadini del mondo, dell’Europa, dell’Italia, della parte meridionale della penisola. Non è questa la sede per accedere ad analisi sofisticate, però non adagiamoci sull’idea fallace ( ed anche un po’ parassita ) di poterci astrarre dalla realtà, di poter affrontare il tema del nostro sviluppo come fosse un fatto autonomo, un manifesto astratto di buoni propositi.
Il “caso” è un elemento imponderabile nella vita degli uomini e delle società che gli uomini costruiscono. Nella dinamica dei fenomeni talvolta si attraversano lunghe fasi vischiose, nel corso delle quali sembra che il tempo si sia fermato; altre volte si registrano evoluzioni calibrate sui tempi giusti per sedimentare riforme e realizzarle quando intorno ad esse si è consolidato un forte consenso. Di tanto in tanto, d’improvviso, irrompono svolte che non a caso si definiscono “epocali”, perché segnano davvero la fine di un’epoca e l’inizio di una nuova fase. Guai a non rendersene conto ed a ritenere che il “biglietto” debbano pagarlo solo gli altri: è materia per la quale la furbizia non paga.
Noi – tutti e singolarmente – siamo chiamati negli anni di questa consiliatura a gestire per la nostra città una fase di cambiamento epocale. Ci sta anche Brindisi in gioco e noi siamo chiamati a fare da guida ad una comunità ansiosa di scrivere un capitolo nuovo della sua storia e del suo ruolo. Rendiamocene conto e attrezziamoci con quelle categorie del sapere, in assenza delle quali la città resterebbe emarginata.

LA CITTA’, I SUOI PROBLEMI, LE PROSPETTIVE DI SVILUPPO
Do per acquisiti i cenni storici ed affronto immediatamente il tema della sua collocazione nel Mezzogiorno d’Italia, argomento che esprime un dato complesso, intorno al quale proprio in questi giorni registriamo e viviamo nuove tensioni. Quelle che definirei “elettorali” tendono a produrre liste nelle competizioni per ora soprattutto amministrative; ma quelle più profonde, meno strumentali, sono collegate alle prospettive economiche e sociali, al destino di un quarto del territorio e di un terzo della popolazione nazionale.
Anche a questo riguardo evito di rievocare polemiche sul passato recente e su quello remoto; è invece opportuno un riferimento all’attualità, alle iniziative annunziate dal governo, alle reazioni delle regioni, degli enti locali, dei sindacati, di quanti – attivi cittadini - riescono a far sentire la propria voce.
A proposito del Sud occorre che si seguano due linee di ragionamento: la prima riguarda l’emergenza, che nelle fasi di crisi colpisce con maggiore violenza le aree deboli. A questo riguardo è necessario reperire risorse da investire nel Mezzogiorno con la consapevolezza però che esse non possono essere utilizzate seguendo i criteri usuali. Ci sono problemi di certezza degli obiettivi e di garanzia delle regole che vanno affrontati con la stessa urgenza che occorre osservare per finanziare le grandi opere. Mi riferisco ad interventi indispensabili per sciogliere nodi che rappresentano ostacoli strutturali allo sviluppo; si faccia perciò attenzione alla effettiva destinazione delle risorse, perché non accada che i soldi – invece di alleggerire – rafforzino i fattori di crisi in un’area afflitta dalla criminalità organizzata e da un apparato politico e burocratico complessivamente scadente.
La “questione meridionale“ è profondamente cambiata, ma le istituzioni propendono per affrontarla con soluzioni del passato, soffrono di torcicollo e guardano indietro, riaprono polemiche prive di senso perché sono lontane dall’attualità . I temi sui quali destra, sinistra, nordisti e sudisti si stanno azzuffando hanno per oggetto argomenti desueti: sono tornati di moda i dibattiti sulla Cassa per il Mezzogiorno e sulle gabbie salariali, strumenti che hanno scritto la loro storia, che si è svolta dentro scenari diversi da quelli con i quali noi oggi dobbiamo confrontarci. La Cassa fu istituita il 10 agosto del 1950: mi domando quale incidenza possa avere sui problemi del nostro tempo il complesso di norme e di teorie alle quali, a parte il giudizio storico in verità divenuto col trascorrere del tempo meno severo, viene addebitato il vizio di aver coltivato l’idea fallace che una forte iniezione di spesa in opere pubbliche potesse creare anche un volume di domanda di beni, tale da attirare in loco investimenti nel settore produttivo.
Se questa non è una interpretazione polemica, ma un giudizio storico, appare evidente che non è la filosofia della Cassa che può risolvere l’emergenza attuale. Anche per le gabbie salariali si deve osservare che le conquiste sociali non possono essere revocate, soprattutto se in fondo assicurano ai lavoratori salari al limite della sopravvivenza.
Qui si inserisce la seconda linea di ragionamento, che non abbrevia i tempi ma li sottrae all’infausta regola della fretta, del rattoppo, dei grandi cambiamenti annunciati che poi lasciano le cose come stanno.
Di che cosa ha bisogno l’economia meridionale e come si potrebbe imboccare la strada che porta a traguardi non provvisori?
Nel Mezzogiorno di oggi mancano infrastrutture di comunicazione, servizi pubblici efficienti e un sistema finanziario capace di supportare la ripresa della crescita. Come tutta l’Italia, anche il Mezzogiorno si trova a fare i conti contemporaneamente con due fenomeni, in parte correlati, in parte tra loro conflittuali: il processo di unificazione europea e la globalizzazione dell’economia. I due fenomeni non sono fra loro complementari. Unificazione europea e globalizzazione sono anzi fra loro piuttosto alternativi. E tuttavia per il Sud dell’Italia non si propone un’alternativa – per riprendere le parole di Churchill – nella scelta tra “Europa e mare aperto”: c’è un percorso tracciato dagli eventi che ci pone una sola strada da seguire.
Noi non possiamo voltare le spalle all’Europa, nonostante l’introduzione della moneta unica abbia determinato in Italia due economie distinte. Non facce diverse dello stesso sistema, differenziate da peculiarità territoriali: proprio due economie, con quella meridionale tagliata fuori dalla cosiddetta “area dell’euro”. Dobbiamo quindi puntare sul mare senza rompere con l’Europa, alla quale dobbiamo riconoscenza politica ed anche economica, perché – fuori dall’Unione – oggi il destino del nostro Sud sarebbe stato, nel migliore dei casi, simile a quello della Grecia.

LA SCELTA OBBLIGATA DEL “MARE APERTO”
A questo proposito va subito precisato che sottolineare l’interesse del Sud per il “mare aperto” non vuol dire riprendere la vecchia sterile giaculatoria sulla pretesa “vocazione mediterranea” delle regioni meridionali. Questa vocazione non è mai esistita nell’era moderna. Anzi, la collocazione del Sud nel cuore della regione mediterranea, cioè di una regione del mondo povera e arretrata, è la vera causa del ritardo meridionale rispetto al Nord. Però non si può non considerare che nell’ultimo trentennio grandi mutamenti si sono verificati nel quadro geo-economico mondiale. C’è da prendere atto che l’Atlantico non è più l’unico centro degli scambi mondiali e che l’asse Nord Europa – Nord America non è più la sola linea di forza dell’economia moderna. Il Pacifico si è infatti trasformato nell’epicentro di una nuova rivoluzione industriale e l’emergere dell’Estremo Oriente ha dato vita ad una sorta di “triangolo” nell’emisfero nord, con due lati fortissimi: quello su cui corrono gli scambi Usa – Estremo Oriente e quello su cui corrono gli scambi Usa – Europa. Il triangolo si chiude con un terzo lato, quello Asia – Europa, che è andato rapidamente rafforzandosi nell’ultimo ventennio. Il quadro mondiale insomma è in rapido mutamento. E questo mutamento finisce con l’avere un impatto anche sulla collocazione globale dell’area mediterranea. Il mediterraneo è infatti oggi diventato parte di un più ampio asse di comunicazione e di trasporto tra Europa ed Asia meridionale.
Comincia cioè ad esistere un “mare aperto” a cui il Sud dell’Italia, pur mantenendo tutto il proprio interesse all’ancoraggio europeo, può guardare. Come è ovvio, le prime ad essere investite dagli effetti di queste nuove opportunità sono le città portuali che vedono i primi segni di un’attenuazione della radicale diversità di destino tra i porti del Nord e del Sud d’Italia. Se il centro della via marittima italiana è sempre stato il sistema dei porti liguri e, più tardi ed in minore misura, quello dei porti dell’Alto Adriatico, la ragione non era difficile da spiegare: il porto di Genova aveva come retroterra il triangolo industriale, quelli di Napoli, Taranto e Brindisi avevano come retroterra il disastro del Sud.
Ora nel quadro globale dell’economia mondializzata si sta costituendo una sorta di “avanmare” per la costa mediterranea dell’Europa: sono le entità economiche costituitesi oltre l’Oceano Atlantico. E poiché si tratta di un sistema di scambi assai complesso, diventa importante l’attività di alcuni centri portuali di “rottura di carico”, cioè centri di smistamento o hubs , come sono state in passato Hong Kong e Singapore.
Scusate l’ampiezza del quadro, ma è bene sapere di cosa stiamo parlando. Questa appena tratteggiata è la partita che Brindisi deve giocare, la direttrice che deve seguire, la scelta strategica che deve compiere. Se non coglieremo questa occasione, la città non avrà ruolo chissà per quanti anni ancora e resterà marginale, incapace di autonoma progettualità, alla mercè di chi vorrà giocare sulla pelle dei brindisini pericolose avventure. E continuerà per i giovani la necessità di emigrare se cercano successo o, semplicemente, un posto di lavoro.
Il Comune, d’intesa con le altre amministrazioni interessate, sta affrontando con impegno questo problema, consapevole della sua centralità per lo sviluppo del territorio ma pure della sua complessità, nel senso che alla soluzione è necessario contribuiscano istituzioni locali, organizzazioni sindacali, associazioni imprenditoriali, ma pure governi nazionale e regionale, assemblee elettive di vario ordine, senatori e deputati che rappresentano Brindisi nelle aule di Palazzo Madama e di Montecitorio. Non è la battaglia per ottenere il riconoscimento e l’approvazione di un progetto pur prestigioso: questa volta si ipotizza il riposizionamento strategico della città. Il porto è organizzazione complessa, perché è necessario disponga di un dinamico “avanmare”, ma anche di un retroterra organizzato con collegamenti stradali, ferroviari, aerei; dotato di infrastrutture e servizi. Non si tratta di alimentare fantasiose speranze, ma di dare corpo ad istanze già recepite anche dal governo nazionale: Brindisi porto hub è già stato inserito fra i cinque progetti-chiave per il rilancio del Mezzogiorno nel Dpef, approvato dal governo e successivamente anche dal Cipe appena due mesi fa. Bisogna non mollare la presa ed elaborare progetti realistici collegati alla capacità di progettazione e di spesa.

GLI STRUMENTI LEGISLATIVI E FINANZIARI
Il binomio città–porto è essenziale per ridisegnare Brindisi. Gli strumenti urbanistici sono già disponibili perché li abbiamo predisposti nella scorsa consiliatura: il Piano Innovativo in Ambito Urbano, il Piano Regionale di Rigenerazione Urbana, l’Area Vasta, infine il Piano Urbanistico Generale sono gli strumenti operativi da utilizzare. Sul fronte delle proprie competenze l’Autorità Portuale ha avviato le procedure per realizzare il nuovo Piano Regolatore del porto.
Ognuno rappresenti le proprie posizioni, tutte legittime e meritevoli di approfondimento: l’unica cosa che non ci possiamo consentire è lasciare sospese le attività bloccandole con la semina del pessimismo, con le polemiche pretestuose che spesso frenano ogni azione agevolando la diffusione di sospetti. Bisogna “fare”. Ovviamente bene, correttamente, con scrupoloso rispetto della legge. Ma bloccare ogni attività inserendo nel dibattito il tarlo del sospetto non è un comportamento civile, anzi è tipico delle società mafiose. Se qualcuno sbaglia, approfitta del ruolo pubblico per arricchirsi a danno della comunità, che finisca in galera senza indulgenze ed anche commiserazioni. Deve cessare di soffiare, nell’interesse di tutti noi e dell’istituzione che rappresentiamo, la maliziosa insinuazione secondo la quale dietro ogni operazione si può nascondere un interesse particolare. Non è di moralismo che ha bisogno la pubblica amministrazione, piuttosto di moralità. Che non è una “cosa” che si predica, è una cosa che si “pratica”.
La rivalutazione del porto richiede la predisposizione di un quadro strategico dentro il quale muoversi e selezionare le priorità. Si comprende, infatti, che non è solo il settore industriale a trarre spinta, ma anche quello turistico, che a sua volta apre orizzonti nuovi ad attività correlate, prima fra tutte il commercio con i suoi molteplici comparti (ristorazione, accoglienza, valorizzazione dei prodotti della nostra terra).

LA CITTA’ DELL’INNOVAZIONE
Evitare che si ripeta l’errore di puntare su un solo settore, restando vittime delle crisi cicliche che in questa fase stanno colpendo in particolare l’industria, sarebbe un errore pernicioso. Dobbiamo potenziare e garantire i settori industriali presenti ( i tre fondamentali – energetico, aerospaziale, chimico – ma non essi soltanto), garantire il rispetto delle norme che tutelano la salute, creare le condizioni per attrarre nuovi investimenti. Al tempo stesso dobbiamo sviluppare il turismo, dando risposte alla richiesta di modernizzazione, di efficienza e di controllo dei costi dei servizi. Colgo l’occasione per ribadire il “no” al rigassificatore nel sito previsto. Non è neppure problema di Valutazione di Impatto Ambientale ( la constatazione che si sia tentato di eluderla ribadisce solo la diffusa attitudine a non rispettare la legge ); è problema di compatibilità con il tipo di sviluppo ipotizzato. Il porto industriale può risolvere anche questa vertenza, per la quale la ostinazione ( o la protervia) di chi riteneva di avere ormai fatto il colpo ha evitato che si svolgessero utili e ragionevoli mediazioni. Non ci sfugge l’apporto che la organizzazione della cosiddetta “catena del freddo” può dare all’agricoltura, ma si tratta di valutare bene le positività e le negatività che derivano dall’operazione. E’ finito – penso di poterlo dichiarare a nome dell’intero Consiglio comunale – il tempo in cui un bene supremo quale il territorio veniva consegnato ad imprenditori in cerca di fortuna. Della loro fortuna. Quella dei cittadini intendiamo assicurarla offrendo servizi efficienti, la cui domanda è pressante e giustificata. Ci impegneremo molto per rendere attivo un fluido sistema informativo comunale attivando servizi accessibili via web, digitalizzazione delle procedure, pubblicazione on line delle informazioni che riguardano procedimenti amministrativi e lo stato di avanzamento di ogni pratica.
“Brindisi città dell’innovazione” , dunque, non solo come fatto tecnologico, ma come approccio sociale e culturale alla domanda di cambiamento.

LE POLITICHE SOCIALI
Rinviando sempre per i riferimenti specifici al documento che è già in vostre mani, ritengo utile dedicare attenzione al potenziamento delle politiche sociali, che rappresentano un punto qualificante del programma di questa amministrazione.
Com’è noto l’Unione Europea ha assunto una determinazione importante, nel senso che ha modificato la destinazione della parte più consistente dei fondi, portando in cima alla graduatoria delle priorità i servizi sociali. Noi condividiamo questa direttiva e siamo impegnati a contribuire al suo successo, nello spirito di superare l’assistenza caritatevole per realizzare un dignitoso servizio.
Operiamo per realizzare anche a Brindisi un sistema integrato di interventi sociali e per promuovere un welfare cittadino che non intervenga solo per contrastare le situazioni di disagio acuto, ma si adoperi a prevenirlo. Qualche tentativo lo abbiamo messo in atto negli ultimi anni della consiliatura trascorsa; ora però questo diventa l’impegno prioritario per il quale il competente assessorato si sta attrezzando.
Dedicheremo all’argomento l’interesse che merita quando il Consiglio sarà chiamato a definire i progetti; per ora vale indicare che l’ipotesi è di istituire aree specializzate ( responsabilità familiari, anziani, diversamente abili, immigrazione, contrasto alla povertà ). L’obiettivo è di promuovere la sussidiarietà orizzontale, attivando momenti di confronto, favorendo l’integrazione tra i soggetti interessati, garantendo alle fasce deboli ( perciò anche agli immigrati ) standard di dignità riferibili alle condizioni di vita delle quali usufruiscono tutti i cittadini.
A questo settore fa anche capo la elaborazione di un progetto per i giovani, che spazierà dalla promozione della creatività ( potenziando i centri di aggregazione come quello funzionante al Paradiso e l’altro in corso di ristrutturazione a S. Elia) alla moltiplicazione degli interventi nel campo della cultura, dello sport e del tempo libero.

CAPITALE EUROPEA DELLA CULTURA
Per ultimo ritengo di segnalare alla vostra attenzione il forte interesse dell’amministrazione comunale a fare di Brindisi un grande centro di iniziative culturali a sostengo della candidatura a capitale europea della cultura. Brindisi, per ragioni complesse che in questa sede non è possibile indagare, nonostante la sua storia a tratti nobile e interpretata da protagonisti illustri, è rimasta emarginata dal processo culturale che ha visto fiorire ed operare in Puglia importanti movimenti di pensiero. Questa esclusione ci ha condannati alla marginalità, alla sudditanza psicologica, alla milizia dentro un Mezzogiorno piagnone, abituato a tendere la mano per chiedere interventi nello spirito dell’indennizzo dei prezzi pagati per la subita annessione allo Stato unitario.
Se Bari ha vissuto primavere intellettuali geniali e, sotto la spinta del meridionalismo sociologico di Gaetano Salvemini e di una lunga teoria di studiosi, sino alla fine del secolo scorso ha ospitato una delle scuole che più hanno elaborato riflessioni ed analisi sulla “questione meridionale”; se Lecce ha giocato con tempestività la partita della seconda Università pugliese, affermandosi nel campo degli studi umanistici e di rivalutazione del patrimonio artistico del Salento, Brindisi ha dedicato scarso interesse a costruire un solido “pilastro del sapere”, lasciandosi imbrigliare nelle logiche dei primi anni Sessanta, quando si riteneva che lo sviluppo industriale costituiva di per sé una prospettiva autosufficiente e non una componente del progetto complessivo. Da noi si costruivano gli impianti, molti dei quali – dopo un lento declino – oggi sono scheletri di ferro anneriti dalla ruggine, non a caso definiti già al tempo della costruzione “cattedrali nel deserto”. Deserto reso ancora più drammatico da un isolamento culturale che ci ha esclusi dalla possibilità di prospettare riconversioni, proporre soluzioni alternative, indicare processi di risanamento e di rinnovamento. E’ l’origine della nostra sudditanza, trasformatasi negli anni in dipendenza da potentati esterni e, per certi versi, estranei alla città. Quando sei escluso dal tavolo delle decisioni, al quale ti è negato l’accesso per un deficit di conoscenza, il degrado si estende a tutto. Brindisi da anni vive una mortificante condizione di soggezione divenuta infine politica. Ricordo a quanti di voi non hanno vissuto le esperienze alle quali faccio riferimento che nel dopoguerra la nostra città ha espresso primati politici nella circoscrizione salentina. Per dirla in parole chiare i politici di Brindisi del dopoguerra sono stati più rilevanti per consenso e per ruolo rispetto a quelli di Lecce e Taranto. Ora i primati sono capovolti e stravolgimenti di questa portata non avvengono per caso né si riequilibrano rapidamente.
E’ il livello di autorevolezza, che deriva dal livello di conoscenza, che ora è decisivo per stabilire se puoi partecipare con dignità al tavolo delle decisioni o se devi restarne escluso. Sono processi lunghi, inevitabilmente lunghi; vale anche per essi la regola che, se non li avvii mai, non giungeranno mai a compimento. Ecco perché abbiamo iscritto Brindisi alla competizione per essere indicata capitale europea della cultura nel 2019; ecco perché l’Università, il Conservatorio, la scuola di specializzazione musicale, il teatro, Palazzo Nervegna, Santa Chiara. Ecco perché il recupero del centro storico, del fronte mare e di tutto quanto potrà essere realizzato nella direzione della promozione della città, che non può esprimersi con il pietoso gesto di tendere la mano nella speranza che qualcuno lasci cadere qualcosa.
Quando inaugurammo Palazzo Nervegna ( è importante averlo aperto, è ancora più significativo che funzioni e sia diventato un centro di grande rilevanza artistica ) assumemmo come slogan “ Brindisi si pensa fra memoria e sviluppo”. Lo slogan è tratto dalla rivisitazione di una riflessione del filosofo Walter Benjamin, il quale sostiene che “ c’è sempre un futuro dimenticato tra le ceneri del passato”. L’ammonimento è a non trascurare la propria storia ed a cercare in essa il seme del futuro. Lo slogan servì, nel momento in cui la città recuperava parte importante della sue radici, a richiamare una maggiore consapevolezza nell’uso delle categorie passato, memoria, presente, futuro. Servì ad agevolare un riflessione critica sia sugli errori e le tragedie della storia e dell’attualità, sia sulla vuota retorica del progresso e del catastrofismo, che ci impediscono, nel presente, di pensare ed agire diversamente.
Non la interrompiamo questa riflessione, della quale in una fase di esasperato pragmatismo hanno bisogno i giovani per non cedere alla disperazione. Una città che non parla ai suoi giovani è sorda e muta: non coglie speranze e non trasmette fiducia. I cinque anni che ci attendono siano di duro lavoro, di severo confronto, ma anche di operosità e di progresso. E’ il dovere di tutti i cittadini di Brindisi, a maggior ragione il nostro che siamo i loro rappresentanti. Questa è la frontiera della nuova classe dirigente: di Brindisi e del Mezzogiorno. E solo percorrendo questa strada il Mezzogiorno – e Brindisi – potranno perseguire l’obiettivo della crescita e dell’espansione.