Liste d’attesa infinite, strutture dei pronto soccorso al collasso, reparti che chiudono, livelli essenziali di assistenza fermi da anni. Questo nel mentre la spesa sanitaria nazionale erogata a livello privatistico raggiunge il tetto dei 41 miliardi di euro, a fronte di quasi sei milioni di italiani che rinunciano a curarsi (fonte ISTAT per l’anno 2024, per il 2023 si era a quota 4,5 milioni).
Secondo l’Osservatorio GIMBE, preso atto anche delle previsioni di impegno di spesa nel “capitolo sanità” incluso nella manovra di bilancio statale del prossimo anno (2026) licenziata da poco, nel 2028 mancheranno circa 40 miliardi di euro per garantire i servizi essenziali di assistenza.
Un autentico disastro sociale generato da un lento, metodico e capzioso definanziamento.
La sopra richiamata è una previsione economica che ha tutta l’aria di una vera e propria resa che, in un paese che invecchia, dove la fragilità cresce ogni giorno, rappresenta una colpa politica e morale che peserà per decenni.
Ma la cosa che maggiormente preoccupa è la costatazione che non si intravedono tracce di strategie di azione, una su tutte la delegittimazione dell’attività privatistica dei medici con un rapporto di lavoro in essere con il SSN, che dovrebbe essere esclusivo, per contrastare tale stato di cose, quasi a confermare che la sanità pubblica è destinata “strategicamente” a ricoprire un ruolo molto marginale nel welfare prossimo venturo.
Cresce la povertà.
La Caritas certifica la scarsa efficacia dell’assegno di inclusione e supporto per la formazione e lavoro, molto meno incisivo del reddito di cittadinanza; l’ISTAT registra un aumento della povertà assoluta e relativa; il CNEL segnala servizi pubblici sempre più diseguali, ponendo forte attenzione alla circostanza che a fronte di maggiori bisogni si assegnano sempre meno risorse; potere di acquisto degli stipendi ridotto in maniera considerevole.
Le conseguenze di tale sconfortante decadenza economica e sociale sono fin troppo evidente: più precarietà, più divari, quindi meno fiducia nello stato, che rischia di essere il sentimento genetico di una pericolosa riesumazione di fantasmi di un esiziale, nefasto passato che non può e non deve tornare.
Questo desolante quadro, meritevole di interventi radicali protesi al raggiungimento di una maggiore uguaglianza, di una più umana giustizia sociale, viene invece scientemente dissimulato con abili operazioni di distrazione di massa.
In effetti, oggi il problema vitale ed imprescindibile non è rappresentato dalla decadenza sociale ed economica sopra richiamata, non è rappresentato dalla stasi del comparto industriale, non è rappresentato dall’aumento del costo delle materie prime, non è rappresentato dalle innumerevoli tematiche che rendono difficoltoso il vivere quotidiano, ma è costituito, così come diffusamente propinato alla nostra attenzione, anche in maniera ossessiva attraverso tutte le strutture dei mass media, dalla modifica di alcuni articoli della nostra Costituzione che, con l’approvazione della legge 30 ottobre 2025, prevedono la separazione delle carriere nella Magistratura. E poiché tale tematica sarà certamente sottoposta a referendum popolare, ancora per molti mesi la teatrale e dissimulante operazione di distrazione di massa continuerà a calcare la ribalta occupando il proscenio.
Una violenza del potere che continua ad operare, in maniera sottile, sofisticata, molto efficace. E contro questa violenza l’indignazione dei più sembra essersi spuntata, sostituita da una rassegnazione che è forse il vero pericolo di quella democrazia conquistata con atroci sofferenze dai nostri padri.
In questi giorni è in pieno svolgimento la campagna elettorale per il rinnovo del Consiglio Regionale della Puglia e, come ovvio, anche Brindisi è interessata a tale appuntamento.
La nostra, come più volte evocato, è una città che vive da anni uno stato socio economico in evidente affanno, subisce la totale mancanza di un nuovo modello di sviluppo teso alla trasformazione ecosostenibile del territorio, maggiormente legato alle proprie risorse, alle proprie storiche vocazioni, a ciò che più profondamente gli appartiene; ed è per questo che gli indicatori di valutazione della vivibilità (affari e lavoro, tenore di vita, ambiente, criminalità, disagio sociale, strutture scolastiche, sistema salute, tempo libero, ecc.) la posizionano in uno degli ultimi posti della graduatoria nazionale.
Anche questo avvilente quadro viene, invece, “scientemente dissimulato con abili operazioni di distrazione di massa” rappresentati dalle tante pantomime dei politici “de noantri” che, con arroganza e spudoratezza, irrompono sul “proscenio elettorale” invadendo l’opinione pubblica con roboanti notizie di imminenti interventi, di assegnazioni di “cofanate” di denaro pubblico.
Ancora.
Non può che apparire mortificante attendersi opere di riqualificazione di strutture pubbliche (edifici scolastici, parchi, strade, ecc.) ridotti in degrado “sperando” di attingere alle (im)propabili compensazioni connesse ai provvedimenti autorizzativi per impianti alimentati da fonti rinnovabili, quando per oltre quarant’anni la salute pubblica, ancorché l’intero territorio, sono stati sottoposti ad una irripetibile devastazione da parte di insediamenti industriali ad altissimo impatto ambientale senza alcun ritorno di pubblico interesse.
Non può che sembrare mortificante assistere inermi allo scempio fatto perpetrare alla nostra città con la perdita di vari enti come l’Autorità di Sistema Portuale, la Camera di Commercio, la Banca D’Italia e, per ultimo, (udite! udite!) la sede dell’ex CONI, ora Sport e Salute, accorpata alla sede di Lecce.
Con il solo pensiero di chi scrive, senza alcuna pretesa di rappresentare altri, ritengo di affermare che una netta inversione di tendenza appare imprescindibile.
Ed ecco perché, in occasione della prossima, ennesima tornata elettorale, ritrovare il gusto del voto, che è una solenne cerimonia di investitura della politica che andrebbe rivalutata di più e meglio, non può che risultare irrinunciabile.
Francesco D’Aprile
