Negli ultimi anni, scorrendo i social network, capita sempre più spesso di imbattersi in una fitta sequenza di volti, racconti di sé, frammenti di vita quotidiana. Non si tratta soltanto di fotografie e ricordi condivisi, come avveniva agli inizi di Facebook, ma di una vera e propria messa in scena di se stessi: video in diretta, selfie compulsivi, confessioni intime trasformate in contenuto pubblico. È come se ognuno, più o meno consapevolmente, fosse spinto a interpretare il ruolo di protagonista di una narrazione personale nella quale non conta tanto ciò che si vive, quanto ciò che si mostra.
Questo fenomeno ha radici profonde. Da un lato, appartiene a una lunga storia della società occidentale, che già negli anni Sessanta Guy Debord descriveva come “società dello spettacolo”: un mondo in cui tutto ciò che è reale finisce per essere rappresentato, tradotto in immagini, consumato come segno. Dall’altro, risente delle strutture psicologiche dell’individuo contemporaneo, sempre più bisognoso di riconoscimento. L’io, per sentirsi esistente, ha bisogno di essere visto, approvato, “validato”. Un like non è solo un gesto leggero: diventa una piccola conferma d’identità. È la prova che ci siamo, che contiamo qualcosa nello sguardo altrui.
I social hanno radicalizzato questo meccanismo perché sono progettati per farlo. L’algoritmo ricompensa chi appare di più, chi pubblica con costanza, chi genera reazioni. Non importa tanto la qualità di ciò che si condivide, quanto la sua capacità di attrarre attenzione. Per questo la rappresentazione del sé diventa compulsiva: non si posta per necessità di comunicare ma per non sparire, per non scivolare fuori dal flusso. Smettere di raccontarsi equivale quasi a non esistere più.
E allora la distinzione tra chi “si autocelebra” e chi “resiste” si fa sottile, perché il dispositivo è pensato per trasformare ciascuno in un brand personale. Non a caso, il linguaggio del marketing è entrato nel quotidiano: “costruire la propria immagine”, “curare il profilo”, “valorizzare i contenuti”. La vita diventa un prodotto da esporre e ogni persona un piccolo imprenditore di se stessa.
C’è chi ha letto tutto questo come un’epidemia narcisistica. Jean Twenge e Keith Campbell hanno usato questa espressione per descrivere un’epoca in cui la centralità dell’io non è più solo un rischio psicologico ma un tratto generazionale. Ma altri autori, tra cui Zygmunt Bauman, hanno sottolineato soprattutto la dimensione sociale: non si tratta solo di vanità individuale ma di una nuova forma di controllo. La logica del social non lascia alternative: se vuoi esserci, devi mostrarti; se vuoi contare, devi apparire. Chi si sottrae rischia di sentirsi escluso, invisibile. E così si moltiplicano i video quotidiani, i selfie davanti a ogni tappa della giornata, i post che celebrano conquiste piccole o grandi. Non è più solo il desiderio di farsi vedere: è la paura di sparire.
Eppure, accanto a questo flusso incessante, emergono anche voci critiche. C’è chi parla di “digital detox”, chi invita a riconquistare il silenzio, chi propone un uso più consapevole e selettivo dei social. Sono tentativi di arginare una compulsione che non nasce da una semplice scelta ma da un dispositivo culturale ed economico che ci ha educati a vivere in pubblico. Forse la domanda non è tanto se sia giusto o sbagliato autocelebrarsi, quanto se esista ancora uno spazio per sé al di fuori della rappresentazione. È possibile vivere senza trasformare ogni istante in un contenuto? Possiamo ancora distinguere ciò che vale per noi stessi da ciò che vale solo se approvato dagli altri? Sono interrogativi che riguardano tutti perché in fondo nessuno è davvero escluso.
I social hanno reso la scena accessibile a ciascuno ma al prezzo di una recita continua. Siamo passati dall’illusione di avere un pubblico alla necessità di mantenerlo. E così la vita quotidiana diventa spettacolo perché è il solo linguaggio che la rete riconosce e legittima. In questo senso, la compulsione all’autocelebrazione sopravanza il narcisismo individuale e diventa il segno di una società intera che si specchia in se stessa fino a rischiare di non vedere più altro che il proprio riflesso.
Roberto Romeo
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