Il disegno di legge, denominato Jobs Act, del governo Renzi per far ripartire il mercato del lavoro è solo l’ultimo tentativo, in ordine di tempo, di una serie di riforme e “contro riforme” che negli ultimi anni lo hanno reso un ginepraio di norme incomprensibili, tanto per i datori di lavori quanto per i lavoratori, rendendolo di fatto non adeguato ai cambiamenti sociali e dell’apparato produttivo. Risulta eccessivamente ingessato e istituzionalizzato con un’alta protezione per alcune categorie ed un ruolo eccessivo della burocrazia, lenta e farraginosa.
Come è noto la crisi economica ha avuto un impatto più negativo in Italia, più che in altre nazioni rendendo indispensabili una serie di nuove regole che, in qualche modo, potessero favorire il rilancio dell’economia e la crescita occupazionale. La UIL ritiene che ciò è stato determinato anche dalla incapacità dei vari governi che si sono succeduti nel tempo, poco attenti a decidere in tempo i cambiamenti strutturali necessari.
Si è dibattuto molto di più sulla modalità di licenziare e meno sulla necessità di rendere fruibili le assunzioni. Con molta probabilità il ragionamento è stato questo: un mercato del lavoro con una elevata flessibilità in uscita ha maggiori possibilità di creare posti di lavoro, ma non è stato così.
Oggi, invece, i tentativi fatti nel tempo hanno prodotto un mostro bicefalo perché una parte dei lavoratori è ben protetta ed un’altra priva di tutele. La ricerca di convergenze condizionate con sistemi economici e sociali di altri stati è cosa molto complicata, perché si tenta di costruire una nuova ipotesi di sostegno sociale sulle fragili gambe del Welfare State, praticamente imploso.
Il governo si muove sulla falsa riga del modello tedesco e danese, ma guarda anche a quello spagnolo come se fossero le soluzioni più praticabili per superare l’inadeguatezza storica del nostro mercato del lavoro e ridare vitalità ad un settore asfittico e stagnante. Riteniamo che fino ad oggi non si è tenuto conto del fattore antropologico proprio di ogni paese e delle specifiche caratteristiche.
Tanto la Germania quanto la Danimarca, paesi a cui l’Italia guarda con attenzione, hanno cominciato un proprio percorso di riorganizzazione del mercato del lavoro quando ancora non era chiaro che la crescita economica fosse basata anche sul forte indebitamento dello Stato.
Così oggi si crede che cancellare l’articolo 18, oppure la revisione dello stesso sia la chiave di volta per realizzare le riforme strutturali e consentire all’Italia di uscire dal tunnel congiunturale.
Molte volte è stato sostenuto, con eccessiva approssimazione, che il problema del mercato del lavoro italiano sia legato ad un’eccessiva protezione all’impiego e l’articolo 18 aiuti a mantenerla.
La UIL non è di questo parere.
L’articolo 18 costituisce la linea di confine tra lavoratori delle piccole e medie imprese rispetto a quelli delle grandi aziende, nuovi assunti, precari e lavoratori a tempo indeterminato.
Modificare l’articolo 18 vuol dire quindi intervenire su uno dei tre pilastri della flexicurity.
Il sistema delle tutele è il secondo e fondamentale elemento. Su questo il mercato del lavoro italiano è fortemente duale, perché prevede la Cassa Integrazione per gli occupati delle imprese con almeno 15 dipendenti e modesti sussidi per tutti gli altri.
Oltre ad essere duale è anche residuale nel senso che il sussidio non è vincolato alla ricerca attiva di un lavoro o della formazione professionale, così come avviene in Danimarca.
Infatti, secondo i dati OCSE, l’Italia è il paese in cui questi obiettivi sono meno o per niente previsti e praticati. In paesi come la Danimarca invece, è obbligatorio per il disoccupato stilare insieme al job counsellor (Consulente degli uffici del lavoro) un progetto di ricollocamento sul mercato che prevede un monitoraggio periodico con la presentazione di prove certe dell’avvenuta ricerca di occupazione.
L’importazione della flexicurity passa inoltre dalla semplificazione dei contratti e delle tutele tramite la creazione di un sistema omogeneo: contratto e sussidio unico vincolati alla formazione e alla ricerca di una nuova attività lavorativa.
Da questo punto di vista la negoziazione tra le parti sociali potrebbe rivelarsi incredibilmente semplice. Si tratta non tanto di ridurre le protezioni sul lavoro, ma di ridistribuirle più equamente tra tutti i lavoratori, ottenendo in cambio forme di tutela del reddito universali. In altri termini non difendere il “posto fisso” ma la sicurezza di un reddito con la possibilità di trovare un altro lavoro.
Sulla questione della tutela dell’occupazione si innestano le politiche attive, il terzo elemento della ricetta danese. L’obbiettivo delle politiche attive è di facilitare la transizione disoccupazione-lavoro attraverso diversi tipi di interventi: job sharing, training e creazione diretta di posti di lavoro, oltre ad incentivi per le assunzioni e per la creazione di imprese.
Questo è anche lo scoglio più difficile per l’Italia, per due motivi.
Da un lato la mancanza di risorse. Infatti la spesa per le politiche attive in Italia è di 2.600 euro all’anno per disoccupato, contro una media danese di 14.800. Ma questo non è l’ostacolo più grande. La vera sfida è quella di trasformare i Centri per l’Impiego (i vecchi Uffici di Collocamento) in vere e proprie Agenzie del lavoro in grado di monitorare la domanda di lavoro locale, aiutare i disoccupati a inserirsi e, dove l’inserimento non è possibile perché le competenze del disoccupato sono inadeguate, organizzare progetti di formazione in accordo con le imprese.
In Italia manca ancora una chiara legislazione per favorire un rapporto costruttivo tra scuola ed imprese: formazione didattica e pratica lavorativa, anche se in qualche caso sono stati firmati accordi in tal senso, come a Brindisi tra l’Istituto Giorgi e l’ENEL. Questo è positivo, ma ancora troppo poco rispetto a quanto serve.
Da ciò si capisce che discutere solo di articolo 18 decontestualizzandolo da un sistema di riforme più complessivo è, quindi, totalmente fuorviante. Così come è singolare oltre che inconsueto voler innestare nel nostro sistema sociale parte del modello sociale tedesco perchè dal punto di vista delle politiche del lavoro quello italiano è ancora in ritardo rispetto a quello vigente in Germania, ma più vicino a quello greco.
La riforma presentata dal governo Renzi si pone, nelle intenzioni, l’obiettivo di rendere più agevole l’inserimento lavorativo senza ridurre le tutele ai lavoratori, anzi aumentarle nel tempo. Al contrario pensiamo che sconvolgere le regole alla radice nuocerebbe fortemente il disoccupato ed il lavoratore alla ricerca di nuova occupazione.
Quindi riteniamo che il Jobs Act non potrà avere nell’economia e nel mercato del lavoro italiano lo stesso risultato ottenuto dalla riforma Hartz entrata in vigore in Germania nel 2005 (un periodo in cui la situazione economica dell’area euro era completamente diversa). Per questo, nel prendere le giuste decisioni, dobbiamo tenere conto delle peculiarità nazionali.
La Germania, inoltre, è stata interessata da una profonda ristrutturazione del sistema delle protezioni sociali e delle politiche attive per il lavoro che hanno favorito il conseguente calo della disoccupazione.
Il risultato è da ricondurre direttamente all’organizzazione del lavoro stesso, alla riduzione delle riserve di manodopera, ad un rallentamento della fase congiunturale che ha favorito lo sviluppo della produttività ed alla diminuzione delle ore di lavoro pro capite. Questo modello organizzativo, a cui si aggiunge la riforma dell’età pensionabile, con il sostanziale indebolimento della contrattazione collettiva a favore di una contrattazione decentrata, ha fatto si che si raggiungessero i risultati auspicati.
Per quello che riguarda la flessibilità del lavoro il sistema tedesco, in termini di licenziamento e reintegro, non appare meno protettivo di quello italiano, anzi a prima vista sembra addirittura più garantista, anche se c’è una maggiore discrezione del giudice del lavoro quando decide se un licenziamento è illegittimo. Anche nel caso di vittoria del lavoratore è sempre il giudice che decreta in merito al reintegro o meno, fermo restando che comunque vadano le cose alla fine l’indennizzo è garantito.
Da qui si evince che pur mutuando il modello tedesco, questo non può ritenersi completamente appropriato alla realtà italiana per il fatto che le controversie giudiziarie in Germania non durano mai più di 12 mesi e, difficilmente, arrivano al terzo grado di giudizio. Tuttavia, in caso di ricorsi al tribunale non giustificati, i costi posti a carico dei lavoratori sono pesanti, infatti si privilegia di più l’arbitrato che il processo.
La UIL è disponibile a dare il suo contributo nel merito, come ha più volte dimostrato anche nel recentissimo passato. Cambiare le regole con un decreto legge potrebbe procurare problemi a tutti.
Giovanni LIBRANDO
Componente della Segreteria confederale UIL Brindisi
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