May 14, 2025

Sui Joy Division si è scritto tanto e di tutto. Biografie ufficiali e non, valanghe di volumi critici che analizzano i testi, ne esplodono i significati, i riferimenti culturali che animavano e destabilizzavano il buco nero che Ian Curtis si portava nel petto, alla ricerca di una motivazione che potesse spiegare, perché un ragazzo di soli ventitré anni decidesse di porre fine alla sua vita, il giorno prima di partire per la tournée della consacrazione negli Stati Uniti. Il sogno di ogni musicista era lì a pochi passi o meglio, poche ore, ma Ian Curtis decise di abbandonare la scena, volontariamente e consapevolmente.

Cos’ha di speciale l’ennesimo libro sui Joy Division? La risposta è tutta nel suo autore, Peter Hook, ovvero il bassista della band. Chi meglio di uno dei membri del gruppo può raccontarci cosa e chi furono i Joy Division?

Chi si aspetta un epitaffio in nero potrebbe rimanere profondamente deluso da questa pubblicazione. L’atmosfera che permea il libro dice tutto. Un’atmosfera che stride violentemente con quella che è l’immagine, l’icona, che il mondo della musica ha dei Joy Division ed ovviamente di Ian Curtis. Hook non si piange addosso, anzi si diverte a raccontarci le sue vicende e quelle dei compagni di viaggio; e non potrebbe essere altrimenti. Joy Division tutta la storia è, a modo suo, un omaggio alla vita, a quella di quattro ragazzi che vogliono suonare punk come i Sex Pistols, ma che inconsapevolmente imbastiscono uno scenario che del fancazzismo non vuole proprio saperne e di questo Ian Curtis, molto probabilmente, ne fu il principale artefice (consapevole?). Musica cupa, lontana, che non lascia trapelare alcuna speranza. Mentre i loro “colleghi di scena” cantavano di amori finiti in tragedia o di tetri scenari figli della letteratura gotico-romantica, i Joy Division si spingevano oltre, musicavano il mondo dopo la sua fine, un paesaggio di rovine da cui non si poteva tornare indietro.

Chi abbia ascoltato anche solo un pezzo del gruppo non potrebbe che pensare ad un insieme di individui perennemente depressi, sociopatici ai limiti della normalità. Il bello del libro risiede proprio nella sua carica sovversiva, blocca la trasposizione della musica nella biografia. Ian Curtis, Peter Hook, Bernard Sumner e Peter Morris erano quattro ragazzi che volevano divertirsi, che scazzottavano, si ubriacavano e non perdevano certo occasione di corteggiare il gentil sesso. In poche parole dei rocker. Forse Hook esagera leggermente nel voler sfatare l’alone “dannato” che circonda la figura di Curtis, quando dice chiaramente che la gente aveva un’opinione eccessivamente idealizzata ed intellettuale di un ragazzo che in fondo più che esserci ci faceva.

Resta però il piacere di avere fra le mani un libro frizzante e per certi versi spassoso che racconta una storia di vita (anche se uno dei finali lo conosciamo bene), che ci restituisce l’immagine di un collettivo di ragazzi desiderosi di “sfondare”, come nella migliore tradizione della musica rock.

James Lamarina

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