Tentare di individuare tutte le influenze culturali del cyberpunk sarebbe un’impresa ardua, che partirebbe dal Frankenstein di Shelley per approdare agli anni 80′, analizzando un secolo di letteratura.
Per comodità di sintesi è possibile definire le principali coordinate entro cui il movimento si muove in quattro tappe cardine: l’artificiale e i simulacri di Philip Dick, i media landscapes e gli scarti di James Ballard, la controcultura degli anni 60 e la letteratura di frontiera di William Burroughs.
Philip K. Dick: l’artificiale è la realtà
“Io sono vivo, voi siete morti”, una frase secca, diretta, di poche parole, che stravolge l’impianto di un intero romanzo, capovolgendo quella che credevamo essere la realtà, lasciandoci interdetti e spiazzati, persi in un intricatissimo labirinto dimensionale, in cui verità e finzione sono indistinguibili. Questa è la frase che ha reso celebre Ubik, l’opera più riuscita ed importane di Philip Dick.
Ubik è uno dei capolavori della letteratura contemporanea, un mondo in cui spazio e tempo perdono la classica consequenzialità, piegandosi ai capricci della finzione, sballottando i personaggi in una spirale costellata da continui fraintendimenti, sino alla scioccante rivelazione. I protagonisti scopriranno di essere morti, delle semplici coscienze artificiali, la cui reale condizione verrà palesata dalla frase posta all’inizio (che nel romanzo è situata nel mezzo, ma risulta comprensibile solo alla fine, in pieno stile dickiano), pronunciata dal datore di lavoro dei malcapitati, i quali lo credevano essere morto, ed invece unico sopravvissuto di un attentato di cui erano tutti rimasti vittime.
Il cyberpunk deve molto a Dick, così come l’immaginario contemporaneo. L’autore scandagliò i meandri dell’artificiale – inteso sia come finzione dimensionale, che ontologica, quest’ultima riassunta nella figura dell’androide- per comprenderne i rapporti col reale, nel tentativo di tracciare una netta linea di separazione.
La ricerca di Dick culminò, nel concetto di simulacro, dove “l’opposto del vero, dunque dell’autentico non è mai [il] falso propriamente detto, quanto piuttosto […] l’apparenza del vero, o meglio ancora l’apparenza né vera né falsa.”1
Questa definizione anziché agevolare la distinzione fra realtà e finzione, la rende più complessa, il simulacro non è vero ma nemmeno falso, questi valori sono inapplicabili alla sua dimensione, la quale è legata alla realtà e allo stesso tempo indipendente. Il simulacro è un mondo dietro un mondo, che l’uomo può percepire come realmente esistente, nonostante la sua artificiosità.
Immediato è il collegamento al ciberspazio gibsoniano; in Neuromante, Case, l’hacker protagonista, vive continuamente sospeso fra due mondi, quello della realtà e quello della virtualità, la quale, nota Gabriele Frasca nel suo saggio su Dick, è la “ scimmia di Dio […] Il principio mistificante, che interpola le sue false creazioni nel latente mondo dell’autentico.”2
Il dualismo realtà-finzione su cui si basa tutto Ubik, pervade l’intera produzione cyberpunk, che trasfigura il contrasto dickiano attraverso la rete e la tecnologia, nei binomi: realtà-simulazione e carne-virtualità.
Altro concetto cardine della produzione dickiana è quello relativo al rapporto con la tecnologia, la quale viene prima considerata fortemente negativa, per poi essere totalmente riabilitata nelle produzioni successive. “Nei primi romanzi la tecnica viene infatti descritta come vera e propria epifania del male e rivela la propria natura demoniaca ingannando gli uomini attraverso la creazione di una realtà puramente illusoria.”3 Esemplare è al riguardo la figura dell’androide, il capolavoro del mondo artificiale di Dick, che i cyberpunkers trasformano nel cyborg, umanizzando una contraffazione in origine puramente meccanica. L’androide è una creazione della tecnica, un prodotto totalmente artefatto, ed in questo senso dis-umano ma che agisce come se fosse un individuo in carne ossa e coscienza. Come accade nel romanzo I Simulacri, in cui il governo è detenuto da un leader, il Del Alte, totalmente meccanico, fatto costruire da un governo ombra.
La tecnica come elemento emanazione del bene è invece presente nella trilogia di Valis, che contiene molti punti di contatto con la visione tecnoreligiosa del cyberpunk. In questi tre romanzi Dick immagina un “Dio-universo come un computer e degli esseri umani come bobine di memoria. […] L’intelligenza artificiale è alle porte e Valis è un acronimo che sta per Vast Active Living Intelligence System. Valis è un sistema “attivo e intelligente” [virgolette nel testo originale] che ci incorpora come proprie cellule nervose, ma è anche il vertice evolutivo della tecnosfera che noi stessi abbiamo creato”.4
La trilogia anticipa le visioni tecnomistiche cyberpunk, nella misura in cui immagina il mondo, come un’emanazione di un’intelligenza artificiale superiore, che se in Dick è Dio, in Gibson è l’intelligenza artificiale. Il paradigma divino però rimane invariato, entrambe le entità create dall’uomo, finiscono col dominarlo.
Dick è il precursore dell’ontologia cyber, che attualizza la visionarietà dickiana nell’epoca dei PC e della rete, creando nuovi simulacri, espressioni di ambienti virtuali, che producono effetti sulla realtà, pur essendo indipendenti da essa.
Volendo individuare una differenza sostanziale fra le due concezioni, questa consiste nel rapporto fra la carne e la tecnica: laddove in Dick questo rapporto si limita alla dimensione cognitiva, nei cyberpunkers invece esso si fa pervasivo e simbiotico.
1 Gabriele Frasca, L’oscuro scrutare di Philip K. Dick, Meltemi, Roma, 2007, p.43
2 Ibidem, p.29
3 Carlo Formenti, Incantati dalla rete, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000, p.82
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