Cormac McCarthy non è uno scrittore come gli altri. Lui non ti gira intorno, non parte da lontano per avvicinarsi a piccoli passi. Cormac ti travolge colpendoti forte al fegato, nel punto in cui ti fa più male. La realtà te la sbatte in faccia, nuda, senza orpelli, spietata, feroce.
I suoi mondi sono attraversati da strade polverose e inaridite dal sole cocente, sentieri disseminati di bivi e che non concedono mai inversioni di marcia. Mondi che non offrono una seconda possibilità, dove il male, spesso rappresentato in maniera eccentrica e multiforme, è un’entità implacabile. In Non è un paese per vecchi il male è un sicario determinato e disumano, un sinistro mietitore, personificazione della figura mitologica del figlio del Caos. Un cavernicolo folle e necrofilo in Figlio di Dio, cacciatori di scalpi in Meridiano di sangue, i superstiti dell’intera razza umana ne La strada. Un puro distillato di cinismo, ma solo in apparenza: i suoi personaggi trasudano umanità come pochi. Un’umanità che ha un’identità forte, vitale, rabbiosa, anche nella costante e disperata ricerca di una redenzione. E alla fine c’è sempre quella fiaccola, quella fiamma accesa, metafora di speranza e di salvezza. In Non è un paese per vecchi, storia di una disperata fuga dal proprio destino, l’antagonista dello spietato killer è un anziano sceriffo, voce narrante e spettatore quasi inerme degli eventi.
È il sogno raccontato dallo sceriffo a sua moglie, nel finale del romanzo, a rivelare l’essenza del messaggio di McCarthy:
Ero a cavallo e attraversavo le montagne di notte. Faceva freddo, per terra c’era la neve, e mio padre mi superava col suo cavallo andando avanti, senza dire una parola. Cavalcava avvolto in una coperta, tenendo la testa bassa, e mentre mi passava davanti mi accorgevo che in mano aveva una fiaccola ricavata da un corno, come si usava ai vecchi tempi, ed io vedevo il cono di luce della fiamma. Era del colore della luna. Nel sogno sapevo che stava andando avanti per accendere un fuoco da qualche parte in mezzo a tutto quel buio e a quel freddo, e che quando ci sarei arrivato l’avrei trovato lì ad aspettarmi. Poi mi sono svegliato.”
In quella fiamma, in quel fuoco che illumina la notte, è racchiuso il messaggio di speranza che ritroviamo in La strada, storia di un padre e un figlio in viaggio tra le rovine di un mondo cupo e freddo, distrutto da un disastro nucleare.
Un libro straziante, intenso, ispirato, dove la sua idea di salvezza non è più velata, o celata in un sogno, ma emerge potente e definita: il destino dell’umanità è custodito nell’eredità che i padri consegneranno ai propri figli.
Un patrimonio da difendere e proteggere, una fiaccola, un cono di luce che si trasmetterà di padre in figlio e che illuminerà il futuro. La stessa fiaccola che in un tempo dimenticato, Prometeo consegnò all’uomo, salvandolo dal freddo e dall’oscurità delle tenebre.
“Ce la caveremo, vero, papà?
Sì. Ce la caveremo.
E non ci succederà niente di male.
Esatto.
Perché noi portiamo il fuoco.
Sì. Perché noi portiamo il fuoco.”
Vito Santoro
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