Da questa settimana Brundisium.net ha l’onore di ospitare Vito Santoro, artista brindisino autore di apprezzate opere editoriali e musicali.
Santoro ha pubblicato due libri, “Non c’è tempo per il sole” (edizioni della Sera) e “I tre volti di Ecate” (edizionispartaco, noir ambientato a Brindisi), ed ha partecipato con successo a diversi concorsi letterari riservati a racconti brevi.
Il primo regalo di Vito Santoro ai lettori di Brundisium.net e “Io non voglio partire”, un racconto breve ambientato a Brindisi, che ha vinto il premio letterario Gea Mea (concorso presieduto dallo scrittore Paolo Giordano, premio strega 2008 con “La solitudine dei numeri primi”).
IO NON VOGLIO PARTIRE
I pomeriggi di marzo hanno un’atmosfera unica.
Non per l’arrivo delle rondini o per i vari profumi e colori della natura che si risveglia – tutto molto bello, non lo metto in dubbio – bensì per un’altra ragione: le battute di pesca.
Funziona così: appena becchiamo la prima bella giornata, assolata e senza vento, Giancarlo e io prendiamo le canne da pesca, l’esca viva comprata da Oreste – la migliore – e ci mettiamo in sella alle nostre moto. Direzione Torre Guaceto. Conosciamo una zona difficile da raggiungere poiché, oltre a essere priva di sentieri, bisogna aggirare un impervio canneto. Si cammina nella radura per un bel po’, ma ne vale davvero la pena: il posto è incantevole e si pesca da dio.
Inauguriamo la stagione in questo modo, da qualche anno ormai. In seguito scegliamo posti più comodi e vicini, ma il battesimo deve avvenire a Torre Guaceto. Lo riteniamo di buon auspicio, fin dalla prima volta che l’abbiamo fatto.
Oggi abbiamo deciso che è giunto il momento di inaugurare il 1991. La settimana scorsa ha piovuto ininterrottamente, ma da stamattina il sole scalda che è una bellezza e il cielo è una splendida distesa di azzurro.
L’appuntamento è a casa di Giancarlo, dopo pranzo.
Prima, però, bisogna superare il primo ostacolo: devo convincere mia madre che non ho nulla da studiare per poi riuscire a svignarmela. Ma non sarà semplice: certe volte, Margaret – solo io la chiamo così – sembra leggermi nel pensiero.
A prima vista mia madre non lascerebbe dubbi a chi non la conosce: un angelo caduto dal cielo. Una voce soave, un sorriso affabile perennemente dipinto sul viso e una gentilezza d’altri tempi. In realtà, sotto questa candida apparenza, si nasconde un sergente di ferro – proprio come Margaret Thatcher, la Lady di ferro – intransigente e severa da morire.
Inaspettatamente va tutto nel migliore dei modi: Margaret ha litigato con mio padre. Non ne conosco la ragione – e poco m’importa in tutta franchezza – ma al rientro da scuola trovo la tavola imbandita con la minestra pronta, e lei, scura in volto, mi saluta senza guardarmi mentre sistema nervosamente le piante sulla veranda. Una scena classica che si ripete tutte le volte che i miei litigano: mia madre se ne sta tutto il pomeriggio maneggiando vasi e fiori, mio padre invece ritorna a lavorare in officina saltando la pausa pranzo. E io ne approfitto per guardarmi indisturbato Ken il guerriero mentre mangio la pasta con i ceci.
– Ciao, ma’ – le dico poco dopo mentre azzanno una mela. – Vado a casa di Giancarlo. A più tardi. – Mentre sguscio via, scorgo sottecchi che si ferma a guardarmi, ma per fortuna non mi dice nulla. Sicuramente deve ancora far sbollire la rabbia.
Il mio amico abita a Sant’Elia, il rione più popoloso – e irrequieto – della città. Così come altre volte, anche oggi mi chiedo che fine facciano tutti gli abitanti del quartiere nelle prime ore del pomeriggio. Regna una pace irreale. Se un forestiero si trovasse qui per la prima volta, in questo preciso istante, sono certo spenderebbe parole di elogio ingannato da questa effimera beatitudine. Tuttavia cambierebbe immediatamente idea nel giro di qualche ora.
Suono il campanello.
Mi aprono qualche istante dopo. Quando entro nel soggiorno, trovo il padre di Giancarlo, un uomo molto anziano che ha tutti gli acciacchi di questo mondo, seduto su un divano di velluto che accarezza amorevolmente il suo gatto. La tv stranamente è spenta, e la madre del mio amico, che a quell’ora di solito è alle prese con ramazza e strofinacci, sembra non ci sia. Con un movimento della testa, il vecchio mi indica la direzione della camera di Giancarlo, lasciando intendere che posso andare dal mio amico.
È tutto molto inconsueto.
Intuisco sia successo qualcosa e, davanti alla porta della camera, esito un po’. Poi afferro la maniglia e apro lentamente.
Giancarlo è seduto al bordo del letto e mi guarda con gli occhi rossi e lucidi. – Io non voglio partire – mi dice con voce soffocata.
Non capisco, e lui me lo legge negli occhi. Allora prende un cartoncino giallo e me lo allunga.
– Cos’è questo? – gli domando.
– Parto per il militare.
– Non dire cazzate – esclamo, ma in realtà ho già letto l’intestazione del Ministero della Difesa e ho capito che ha ricevuto la chiamata per il servizio militare.
Giancarlo è più grande di me di due anni. Ha lasciato la scuola da un pezzo e lavora in una pizzeria del centro. Tutte le sere – feste comprese – tranne il martedì, giorno di chiusura del locale. Lui comunque non si lamenta mai, anzi è felice perché lo pagano discretamente e lavorare fino a tarda sera non gli pesa granché. Gli secca non poter uscire con Marina, la sua ragazza, tuttavia riesce a vederla ogni giorno, nei ritagli di tempo.
– Io non voglio partire – mi ripete scuotendo la testa.
– Quante storie – gli dico cercando di sdrammatizzare – sapevi che prima o poi ti avrebbero chiamato, o no?
– Hai letto la data? Devo partire il quindici. Ti rendi conto? È la prossima settimana!
Io mi limito a un’alzata di spalle.
– C’è la guerra nel Golfo. Quelli mi danno un fucile e mi mandano a combattere.
– Ma la guerra è finita qualche giorno fa. Saddam Hussein si è ritirato, di cosa parli?
– I militari invece sono tutti lì, in Kuwait. Stanno chiamando un sacco di ragazzi per la leva, l’hanno detto anche oggi al telegiornale.
– Ma dai, tranquillo che non ti mandano in Kuwait.
– Dici così perché questa cartolina non è arrivata a te… e poi, hai visto in Jugoslavia e in tutti quei paesi lì, che gran casino che sta scoppiando? Sta per accadere qualcosa di grave, ne sono sicuro. Io non voglio partire.
In effetti, fossi al suo posto, avrei la sua stessa ansia e preoccupazione. Tuttavia non voglio darlo a vedere. Anzi, cerco di fare di tutto per tranquillizzarlo. – Ora però smettila di frignare e andiamo.
– Dove andiamo?
– A pesca! L’hai dimenticato?
– Non ne ho nessuna voglia.
– La giornata è perfetta per andare a Torre Guaceto. Dai, passiamo un bel pomeriggio al mare e vedrai che alla guerra non ci pensi. – Mi guarda con un’espressione incerta. Non sono riuscito a convincerlo. – Metti che il tempo si guasta nei prossimi giorni, non credi ti rimarrebbe l’amaro in bocca? Partiresti senza essere andato neanche una volta a pesca.
Si alza improvvisamente, infila la giacca e prende lo zaino con la sua attrezzatura. – Hai ragione. Andiamo.
Lo seguo sorridendo soddisfatto. Mentre attraversiamo il soggiorno, il padre di Giancarlo ci segue con lo sguardo senza muovere la testa. Non dice neanche una parola continuando ad accarezzare il gatto. Usciamo, e anche noi non diciamo nulla.
Raggiungiamo la riserva di Torre Guaceto che il sole è ancora alto e accecante. Leghiamo le moto una con l’altra con la catena e ci inoltriamo nella boscaglia con gli zaini in spalla. Mentre camminiamo, parliamo a lungo. Gli racconto di Michael Jordan, fenomeno del basket destinato a diventare una leggenda vivente, e di Laura che sembra non voglia saperne nulla di me.
– Ci sono così tante belle ragazze – mi liquida drasticamente.
Lo vedo sereno. Sembra che abbia messo da parte ogni preoccupazione. E la cosa mi rende molto felice.
La scogliera di Torre Guaceto ci appare all’improvviso dopo aver oltrepassato una duna di sabbia ricoperta da fili d’erba lunghi e tesi. La vista è mozzafiato. Il mare lambisce la riva in una miriade di sfumature che vanno dal verde smeraldo a un intenso e luminoso azzurro. I profumi del mirto selvatico e del ginepro si fondono delicatamente con quello della salsedine.
La nostra presenza non passa inosservata e centinaia di storni si alzano in volo muovendosi in armonia lungo il filo dell’orizzonte. Ogni volta ci sembra una nuova meraviglia.
Scegliamo il punto migliore dove preparare le canne da pesca e, mentre tiro fuori dallo zaino lenze e ami, mi accorgo che Giancarlo si sta spogliando. – Cosa fai? – gli domando.
– Ci facciamo una nuotata.
– Sei pazzo? L’acqua è gelida.
– Facciamo una gara. Spogliati, dai. Oggi ti schianto.
Scuoto la testa, ma decido di assecondarlo e mi tolgo anch’io i vestiti. Lui si è già posizionato sull’estremità di uno scoglio pronto a tuffarsi. La temperatura è gradevole, ma è pur sempre marzo e l’impatto con l’acqua non sarà per niente piacevole.
– Sei pronto? – mi grida. – Al mio tre. Uno, due e… tre!
Ci tuffiamo. La sensazione che provo è peggiore di quanto mi aspettassi. Mi sembra che l’acqua gelida penetri attraverso la mia pelle e s’impossessi di ogni molecola del mio corpo.
Giancarlo nuota in maniera furibonda. Non mi ha mai battuto, neanche una volta. Sono più veloce di lui e anche oggi potrei superarlo facilmente, ma decido di lasciarlo andare avanti tenendomi a un paio di metri di distanza.
Mentre nuoto, intravedo qualcosa davanti a me, qualcosa di strano che mi costringe a fermarmi. Sono sbalordito: mi sembra di avere un’apparizione. Giancarlo non si accorge di nulla e si ferma alcuni metri più avanti per poi voltarsi verso di me esultando. – Ti ho battuto! Ti ho battuto! – Poi nota la mia espressione sconvolta e rivolge la sua attenzione nella direzione del mio sguardo: un’enorme nave, vecchia e malandata, colma di persone fino all’inverosimile. Sono migliaia, assiepate come bestiame da macello, e occupano ogni centimetro dell’imbarcazione. Si trovano ovunque. Alcuni di loro sono arrampicati anche sul radar e sul pennone della bandiera. Sulla canna fumaria è dipinta un’aquila nera a due teste su uno sfondo rosso: la bandiera dell’Albania.
Giancarlo si volta verso di me con un’espressione disperata. – Io non voglio partire – mi dice quasi piangendo.
Vito Santoro
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