QUANDO UN’AZIONE INCONSAPEVOLE DIVENTA SUBLIME PERFORMANCE
ovvero l’atto del ramazzare oggetti d’arte che si trasforma esso medesimo in opera d’arte
La storia della zelante donna delle pulizie barese che ha spazzato via con scopa e paletta alcune “preziose” opere d’arte, è troppo ganza per sfuggire al mio commento.
Per l’ennesima volta, nell’ambito delle produzioni artistiche, è successo che qualcuno ha gridato che il Re è nudo, svegliando dal letargo pecoronesco la dormiente opinione pubblica, finalmente gratificata del diritto di sbeffeggio nei confronti di sedicenti geni e di mercanti ruffiani e interessati.
La brava signora Annina, trovando la sala Murat piena di rifiuti e avanzi (vuoti di birra, scatole semi aperte, fogli di giornali appallottolati, persino biscotti spezzettati), ci ha dato giù di buona lena raccogliendo tutto a favore di capienti sacchetti da spazzatura e finendo poi il lavoro “a regola d’arte” con una bella passata di acqua fresca e Lysoform.
Il pensiero corre subito all’ultimo ready-made di Duchamp, una vecchia porta, a cui, qualche anno fa, uno scrupoloso operaio pensò bene di dare una generosa rinfrescata di vernice.
E a proposito di “sverniciatina”, vi torna in mente quella subita dal rilievo di Amerigo Tot sulla facciata del Nuovo Teatro Verdi di Brindisi?
La memoria va anche a quel vecchio film, “Vacanze intelligenti”, in cui Albertone Sordi fa accomodare la stanca consorte su una sedia posta in un angolo della biennale di Venezia.
La poverina sarà scambiata per un soggetto da body art dagli istupiditi visitatori.
Per non parlare poi della storica beffa di Livorno, quando tre mattacchioni fecero ritrovare alcune teste scolpite col… Black & Decker che furono subito prese per originali manufatti di Modigliani. Il confine tra opera d’arte e bufala è quindi molto labile.
Tornando al caso in ispecie, questo tal Fabio Santacroce è un Achille o un Tersite? Le sue pallottole cartacee e i suoi Oro Saiwa disseminati tra i cartoni, hanno una valenza nobile e incantevole come declamato nel patinato catalogo, o sono un’ennesima presa per i fondelli?
Siamo di fronte a qualcosa di originale, di epocale o, per dirla col mitico Fantozzi, ci hanno propinato la solita “cagata pazzesca”? Come per la quasi totalità delle opere riconducibili al segmento dell’ informale e del concettuale, non si capisce mai se ci troviamo di fronte a roba per palati fini o semplicemente a lavori che un certo cerchio magico ha interesse a promuovere e a piazzare sul mercato.
Resta l’equivoco di fondo: per non fare la figura dei rozzi ualani ignoranti e conservatori, ci mordiamo la lingua ingoiando dubbi e sospetti e continuiamo a guardare con falso interesse le opere esposte, sotto l’occhio indagatore dell’artista che forse ha subodorato il dissenso.
Il problema di cosa sia e cosa non sia opera d’arte è vecchio come il cucco.
A partire da Aristotele (Poetica), Kant (Critica del giudizio), Croce (Estetica), Benjamin (L’opera d’arte) e tanti altri ancora.
Come si riconosce un capolavoro? La consacrazione deve venire da molti o solo dagli esperti?
E’ giusto replicarli o devono rimanere originali ed unici?
Sono queste le domande che si pongono da secoli i ricercatori della cosiddetta “ontologia dell’arte” Gli studiosi contemporanei concordano nel definire opera d’arte moderna un oggetto materiale che provoca emozioni e sensazioni (aisthesis, come dicono quelli che parlano bene).
Tutto però in un contesto sociale allargato e con il supporto di un avallo critico non episodico o marginale. Ma questo non è ancora sufficiente.
E’ vero che l’opera, come dice Umberto Eco già dal lontano ’62, è sempre un’opera “aperta”, con un suo lato che sfugge alla classificazione e in parte alla comprensione, ma il fruitore deve essere messo in condizione di rapportarsi alla “cosa”, di relazionarsi con essa, di recepirla come frutto di una ricerca che ha prodotto qualcosa di nuovo. La “grande emozione” non può che donargliela il “vero” artista per il tramite di un suo indefinibile quid che è il peculiare lampo della creazione, dell’invenzione assoluta.
L’autore, per diventare artista, deve quindi compiere il miracolo della trasfigurazione. Soltanto così l’oggetto comune si trasforma in oggetto d’arte (L’orinatoio di Duchamp, trattato dal “pensiero” del Maestro, si trasforma in “Fontana”, 1917).
Così cambia magicamente lo statuto dell’oggetto e la percezione stessa del destinatario.
Però, attenzione, le esperienze sono uniche, irripetibili.
Se qualcuno replica Andy Warhol e la sua piramide di 100 scatole di detersivo” (1964) non è un genio, è un guitto.
L’Arte con la “A” maiuscola è come un quadrifoglio, è rara e non è facile da scovare.
Sono andato a vedere la mostra di Paternò a Palazzo Nervegna.
Malgrado gli entusiastici endorsement di Sgarbi, ho trovato i lavori esposti piuttosto ordinari e banali.
Molto colore, molta luce, un pizzico di ironia, volti fotografici, buona tecnica pop ma anche ripetitività, latitanza di profondità, mancanza di spessore, anche materico.
Quadri simpatici da collocare in una boutique, in un salone di estetista o nella stanzetta di un adolescente. E in giro non è che la musica cambi.
Le mostre degli artisti informali si riducono ad una monotona rielaborazione di tele cariche di colori a cui fanno da pendant i titoli delle opere, spesso più interessanti delle opere esposte. Non se ne abbiano a male gli artigiani -esecutori e i grandi addetti ai lavori (Bonito Oliva, Caroli, Sgarbi).
Cari critici, potete scrivere tutte le belle parolone che volete, indorare la pillola, straparlare alle vernici delle mostre, il vostro latinorum non ci incanterà perché ci pare troppo simile a quello usato dal famoso Azzeccagarbugli.
Non ci faremo condizionare, miei illustri esperti, perché continueremo ad affidarci al nostro gusto e alla nostra sensibilità nel giudicare quanto ci passa la conventicola.
I capolavori andateli a proporre ai soliti ricconi o alle madame snob.
In conclusione, propongo che sia assegnata almeno una targa alla gentile signora Anna Macchi che, nell’”installare” nel bidone della monnezza quei ridicoli simulacri spacciati per arte, ha involontariamente creato una geniale opera d’arte: la performance della distruzione di un’opera da cui, ne è nata un’altra “più bella e più superba che pria”.
Un lavoro che anche il professor Immanuel Kant non avrebbe esitato a classificare “sublime “, considerato che il filosofo di Konigsberg affermava che il bello è misurabile, mentre il sublime è smisurato e illimitato. Come appunto il buon senso…artistico della simpatica signora Anna.
Bastiancontrario
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