La storia di Stefano Cucchi inizia con un verbale posticcio, un errore grossolano e vergognosamente goffo, un compitino delle elementari scritto a pochi minuti del suono della campanella e copiato male da un alunno distratto: i carabinieri dichiararono che alle 15,20 avevano arrestato “uno spacciatore albanese di trentaquattro anni senza fissa dimora”. Al momento dell’arresto invece, pochi minuti prima della mezzanotte, Cucchi aveva consegnato i suoi documenti agli agenti dove risultava chiara la cittadinanza italiana, la residenza a Roma e l’età corretta.
Il giudice che esaminò il caso, il mattino seguente, in virtù di quel verbale errato negò i domiciliari e convalidò la detenzione in carcere.
L’epilogo di questa vicenda è oramai storia nota: sei giorni dopo l’arresto, in seguito alle percosse e alle gravi lesioni subite durante un interrogatorio e all’incuria dei medici che l’avevano visitato, Cucchi morì solo come un cane, disidrato e immobilizzato su un lettino in una clinica carceraria.
Tra medici, infermieri, agenti, l’avvocato assegnato d’ufficio e il giudice che durante l’udienza gli riservò appena uno sguardo distratto, furono oltre un centinaio le persone che interagirono con lui, rendendo ancora più drammatico il suo incedere solitario verso la morte. L’unica persona che gli fu vicina in questo calvario è Marco, un fantasma, una voce senza identità che gli tiene compagnia fino agli ultimi momenti, quando Stefano era preda dei deliri.
La ricostruzione dell’assurda morte di Stefano Cucchi è raccontata nel film di Alessio Cremonini, Sulla mia pelle, un film che non è solo la cronaca della sfortunata odissea di un giovane, ma è la fotografia di un Paese alla deriva, vittima della malasanità e della burocrazia, dell’abuso di potere e della superficialità.
Nello sguardo rassegnato di Alessandro Borghi, l’ispirato protagonista del film, c’è tutta la sfiducia nei confronti di un mondo che lo ha irrimediabilmente emarginato, una società miope, incapace di prendersi cura dei propri figli e di reagire alle ingiustizie e alla negligenza che imperversa nelle istituzioni.
Gli errori (ed orrori) giudiziari, fatti di sentenze sbagliate con colpevolezze e assoluzioni che si ribaltano senza logica da quasi dieci anni sono il drammatico corollario di questa tragedia.
Il procuratore della Repubblica di Roma Giuseppe Pignatone, a proposito del caso Cucchi ha dichiarato che “è inaccettabile, da un punto di vista sociale e civile prima ancora che giuridico, che una persona muoia non per cause naturali mentre è affidata alla responsabilità degli organi dello stato.”
Sul corpo senza vita di Stefano c’era un cartellino con scritto “148”, numero che indicava il 148º morto all’interno delle carceri italiane nel 2009.
Vito Santoro
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