Lecce, un sabato di tantissimi anni fa, un pomeriggio da vivere dopo una settimana immolata al dio lavoro che ti lascia in corpo la voglia di una proustiana ricerca del tempo perduto, di provare emozioni più forti, anzi, del tutto nuove, di allentare le briglie al cuore e tirarle al raziocinio.
E il cuore, scaldato dai raggi dorati della pietra leccese, mi porta, insieme alla ragazza, nei pressi del cine teatro dove si sta proiettando il film tanto chiacchierato del momento. Non ci sono intenzioni particolari, se non la pura e semplice curiosità e la voglia di tuffarsi in un mondo diverso per verificare, se e quanto diverso, da una vita senza particolari scossoni. La mia.
«Entriamo?», chiedo alla ragazza assorta a guardare il grande manifesto interamente occupato dalle figure dei protagonisti, Maria Schneider e Marlon Brando. Solo un lieve cenno del capo per darmi l’assenso, ma senza guardarmi e, soprattutto, senza manifestare alcun segno che potesse farmi comprendere fino a qual punto fosse al corrente del forte chiacchiericcio che stava montando attorno a quella pellicola di un ancora poco noto Bernardo Bertolucci. O forse, dietro quel cenno del capo, c’era anche per lei la curiosità, lontana dalla sua cittadina di provincia, di godersi il primo film che la sorte aveva deciso per noi.
Procedendo cautamente in una sala buia, ché l’orario fisso degli spettacoli era ancora da venire, raggiungiamo due posticini isolati che sembrano essere stati riservati proprio per una coppietta. Mi occorrono solo un paio di minuti per rendermi conto di quello che ci aspettava vedere: una relazione surreale fatta solo di rapporti intimi che trovano nel sesso l’unica risposta sensibile, anche se non definitiva, al conformismo del mondo circostante. Fino al punto che i protagonisti rifiutano di rivelare i loro nomi, presi come sono dalla sola realtà del sesso.
Mi restringo sulla poltroncina come, al sole, un jeans appena strizzato, sperando che, poco per volta, riesca a scomparire, a liquefarmi come quella che molto più tardi Bauman avrebbe chiamato “vita liquida”. E questo mentre sul mio volto, con una inspiegabile alternanza, devono comparire pallore, rossore, sudore. D’un tratto mi sovviene di lei. Che fa? Sta provando le mie stesse sensazioni? O sta convincendosi di una macchinazione per trascinarla in quella sala?
Sposto di qualche millimetro la testa per accertarmene. Nulla traspare da quel volto di Nefertiti che sembra interessato allo svolgimento di una trama che avrebbe fatto arrossire Giacomo Casanova. Che abbia sbagliato tutto su questa ragazza? O l’unico fuori posto lì dentro ero io? No, non può essere perché – questo era fin troppo noto – si trattava di un’opera molto discussa, di un classico del cinema erotico colpito dalla censura con un procedimento penale che sfociò nella condanna al rogo del film.
Con grande sollievo le luci della sala si riaccesero, la gente cominciò a defluire borbottando incomprensibili commenti e anche noi ci ritrovammo schiaffeggiati dalla frescura della sera. Nessuna parola sul film fino al rientro a casa, così da fare pensare che, nel conteggio finale della nostra vita, ci saremmo trovati con due ore di meno. Tirai un sospiro di sollievo e quell’assurdo pomeriggio finì nel dimenticatoio, com’era giusto che fosse.
Ma chi l’avrebbe mai detto che quel film me lo sarei ritrovato di fronte dopo quarantasette anni!? A farlo risuscitare è stata, nel trascorso novembre, la morte del regista e la volontà del direttore di Rai2, Carlo Freccero, di riproporre la pellicola in televisione. In prima serata! Stando alla lottizzazione partitica del palinsesto pubblico mi sarei aspettato di vederla scorrere su Rai3 e invece, poco è mancato che allietasse la serata del primo canale.
Freccero è un manager pieno di idee, alcune delle quali interessanti come quella di voler riportare nel servizio pubblico la satira libera e graffiante ma, mi chiedo, perché è andato a scomodare quell’insano pallino di Bertolucci per il sesso? Se voleva commemorarlo più degnamente c’era tutt’altra filmografia, come “Novembre” o “L’ultimo imperatore”. Perché “Ultimo tango a Parigi”?
Forse perché voleva riportare alla luce anche l’atmosfera del Movimento del Sessantotto, quel fenomeno socio-culturale con grandi movimenti di massa (studenti, operai, gruppi etnici minoritari) e una forte carica di contestazione contro i pregiudizi politici? Nelle scuole gli studenti contestavano i pregiudizi dei professori (esami di gruppo, promozione obbligatoria, rinuncia alla meritocrazia) e del sistema scolastico scarso e obsoleto. Nelle fabbriche gli operai rifiutavano l’organizzazione del lavoro. Ma, sopra tutto e tutti, c’era il sesso. Gridavano «vogliamo che ognuno sia libero di fare ciò che vuole a patto che ciò non leda la libertà altrui. Per una assoluta libertà sessuale…».
No, non sono un bigotto e nemmeno un cattolico molto praticante, e tuttavia ritengo che l’argomento vada trattato con tutta la serietà che merita. Parlo da laico, da persona matura che sente appieno il rispetto per il corpo che Qualcuno ci ha donato. Per il rispetto della donna che si può uccidere anche solo con la scena del burro.
Come è noto il film fu condannato per “esasperato pansessualismo fine a se stesso”, ma non solo per colpa del burro. Il polverone è stato invece sollevato, nel 2007, da un’intervista che la Schneider rilasciò al magazine Daily Mail. L’attrice dichiarò di essersi sentita violentata durante quella scena. Dopo molti anni non riusciva a perdonare né il co-protagonista né il regista.
«Quella scena non era nella sceneggiatura originale. La verità è che fu a Marlon Brando che venne l’idea. Ma ne parlarono solo poco prima di girarla, e io ero davvero arrabbiata per questo. Avrei dovuto chiamare il mio agente o il mio avvocato, perché non si può costringere qualcuno a fare qualcosa che non è nel copione, ma a quel tempo non lo sapevo. Marlon mi disse: “Maria, non ti preoccupare, è solo un film”, ma durante la scena, anche se ciò che Marlon stava facendo non era vero, io piansi lacrime vere. Mi sono sentita umiliata e a essere onesti un po’ violentata, da Marlon e da Bertolucci».
«Fermandosi a una lettura in chiave sessuale – afferma Freccero – si rischia il rigetto di un’opera ben più complessa, incentrata su una problematica esistenzialistica». Ma, direttore, quel lavoro è fatto solo di sesso e di ciò che a questo si accompagna: la noia, quella di Moravia e dell’esistenzialismo romano. Che teorizzava: l’antidoto alla noia e alla morte è la sessualità!
Personalmente sono contrario a Baudelaire quando affermava (“Diari intimi”): «il sesso è il liberismo del popolo». Qui non c’entra niente il populismo. Si tratta della cosa più delicata che l’uomo ha il dovere di rispettare e fare rispettare. Nell’intimo del suo cuore e con l’attiva partecipazione di un partner che abbia la stessa forma mentis. In questo caso non c’è noia, ma solo gioia.
Antonio Gramsci così si esprimeva in “Letteratura e vita nazionale”: «L’uomo ha lavorato enormemente per ridurre l’elemento “sesso” ai suoi veri limiti. Lasciare che esso di nuovo si dilati a scapito dell’intelligenza è prova di imbarbarimento, non certo di elevazione spirituale».
Terzo e ultimo tempo: in viaggio verso il Petruzzelli. A bruciapelo chiedo – sempre a lei – se ha rivisto in Rai l’Ultimo tango. Poi, evitando di fissarla, quali erano state le emozioni di anni prima. Sorride e quel movimento delle labbra mi fa capire tutto, o quasi. Ma, anche questa volta, nemmeno una parola. Muta. Come il Coro muto della Butterfly che ci apprestiamo a godere. Altro che sesso!
Guido Giampietro
No Comments