L’istituzione della giornata dedicata alla Marina Militare risale al 13 marzo 1939 ed è dedicata a una delle più significative e ardite azioni compiute sul mare durante la 1ª Guerra Mondiale: l’impresa di Premuda del 10 giugno 1918, quando il Comandante Luigi Rizzo e il Guardiamarina Giuseppe Aonzo, al comando dei “MAS 15” e “MAS 21”, attaccarono una formazione navale austriaca nelle acque antistanti Premuda (costa dalmata), provocando l’affondamento della corazzata “Santo Stefano”.
Quest’anno, ricorre il centenario della Grande Guerra, durante la quale la Marina Militare si è distinta e ha dato il suo contributo sia nel campo dell’Aviazione Navale, che nella guerra silenziosa combattuta dai sommergibili in Adriatico.
Martedì 10 giugno, in occasione della “Giornata della Marina Militare”, saranno aperte alla cittadinanza le porte del Castello Svevo, della Caserma Carlotto, della Nave da assalto anfibio San Giusto e della Cripta situata alla base del Monumento al Marinaio d’Italia.
Il Castello Svevo, sede storica della Marina Militare a Brindisi e attuale sede del Comando Brigata Marina San Marco, sarà aperto offrendo l’opportunità di visitare la Sala Storica del San Marco, dove si possono ripercorrere le pagine gloriose scritte dai Fucilieri di Marina Italiani in oltre cento anni. Il Castello custodisce preziosi cimeli testimoni dell’importanza di Brindisi come sorgitore militare e del ruolo che la Città ha avuto per la marineria Italiana. L’accesso avverrà da Porta Vittoria, in via dei Mille n°4.
La Caserma Carlotto, sulla strada provinciale che congiunge Brindisi e San Vito dei Normanni è la principale installazione dei Reparti Operativi della Brigata Marina San Marco, attuale sede del 1° Reggimento San Marco, componente operativa di vertice della Brigata.
All’interno della Base Navale di brindisi, si potrà visitare Nave San Giusto, una delle tre Navi da assalto Anfibio della Marina Militare, sarà possibile calarsi in una ambiente particolare, quello di una nave costruita per essere una base per operazioni a terra. La sua flessibilità di impiego ne fa un prezioso strumento di supporto anche in operazioni della protezione civile. Per visitarla sarà aperta Porta Vittoria che consentirà alla cittadinanza di raggiungere la Nave direttamente dal Lungomare.
La Cripta alla Base del Monumento al Marinaio contiene i nomi di migliaia di Marinai Italiani caduti sul mare nell’adempimento del dovere. Il monumento fu inaugurato il 4 novembre del 1933 alla presenza del Re Vittorio Emanuele III delle più alte cariche dello Stato.
La Caserma Carlotto ed il Castello Svevo saranno aperti nella mattinata dalle 09:00 alle 12:00 e nel pomeriggio dalle 14:00 alle 16:00.
Nave San Giusto sarà visitabile dalle 09:30 alle 11:30 e dalle 15:00 alle 18:00.
Il Monumento e la Cripta saranno aperti dalle 09:00 alle 12:00 e dalle 1400: alle 16:30.
Scheda 1, Della Marina
Parlare di imprese ed episodi gloriosi della Regia Marina durante la Grande Guerra è facile, ma fuorviante. Tutti sanno che il comandante Luigi Rizzo affondò, il 10 giugno 1918, in pieno giorno, con la propria sezione di due MAS, la modernissima nave da battaglia austro-ungarica Szent István (nome di solito italianizzato in Santo Stefano). Molti, quantomeno in Marina, sanno che quello stesso ufficiale aveva affondato, sei mesi prima, un’altra corazzata nemica, la Wien, forzando il porto di Trieste. Rossetti e Paolucci affondarono la Viribus Unitis a Pola e si potrebbe continuare, citando siluranti, sommergibili e piroscafi. Ma la verità profonda è che la Marina italiana era formata, nel 1915, da 50.000 uomini e che tutti fecero il loro dovere. La tradizionale libertà intellettuale della Marina diede la possibilità e lo spazio a imprese individuali senza precedenti, totalmente innovative e, spesso, tecnologicamente molto avanzate per l’epoca, ma l’azione fu corale, sempre e dovunque, anche se i giornalisti preferirono descrivere le imprese dei singoli dimenticando il panorama. La Marina, a sua volta, non cercava la pubblicità. Le bastava il successo. La flotta austro-ungarica perse sin dal primo giorno di guerra il controllo del Canale d’Otranto e rimase annichilita alla distanza dalla squadra da battaglia italiana riducendosi a una semplice guerriglia in Adriatico rivelatasi, infine, inutile e controproducente.
Il Paese (non solo le truppe) fu alimentato via mare, e nonostante l’ininterrotta offensiva dei sommergibili tedeschi nel Mediterraneo tra il 1916 e il 1918, arrivò nei nostri porti il 98,9% dei materiali, dei viveri e dei combustibili spediti. Il problema vero era che poco arrivava perché poco partiva. I nostri alleati, eccezion fatta per gli Stati Uniti, ci davano, infatti, per perdenti e pretendevano il pagamento anticipato, salvo poi non spedire, di tanto in tanto, neppure quanto comprato a peso d’oro. Insomma, niente di nuovo sotto il sole. Le navi italiane, con il concorso di quelle francesi e britanniche, salvarono inoltre l’Esercito serbo, durante il durissimo inverno 1915/1916, portandolo in salvo in Grecia. Quelle stesse sei divisioni rappresentarono, due anni dopo, il 25% dell’armata alleata al momento dell’attacco finale nei Balcani, offensiva che sarebbe stata impossibile senza il silenzioso, ma sempre decisivo Potere Marittimo esercitato dall’Italia al momento del bisogno.
Le operazioni offensive condotte dalle navi, dai sommergibili e dagli aerei italiani, assieme a inglesi e francesi, contro il traffico nemico lungo le coste della Dalmazia e in Albania causarono la perdita o la messa fuori servizio del 20% del naviglio mercantile austro-ungarico utilizzato per alimentare il fronte balcanico. I pontoni della Marina logorarono ogni giorno il fronte a mare nemico coi loro cannoni, grandi e piccoli; nulla del genere venne fatto da parte austro-ungarica in quanto il dominio delle acque costiere nell’Alto Adriatico da parte delle navi della Regia Marina non fu mai disputato. Parimenti le navi italiane trasportarono, da e per il fronte, tra il 1915 e il 1918, 2.739.000 tonnellate di rifornimenti e materiali, quelle nemiche meno di 100.000.
Durante le 40 azioni di superficie di quel conflitto combattuto in Adriatico si scontrarono, in tutto, 149 navi alleate contro 144 austro-ungariche. Nonostante il vantaggio assicurato loro dall’iniziativa e dalla possibilità di percorrere, ad alta velocità e protetti dalla notte, la traversata di quel bacino, le navi asburgiche colpite furono 46 e quelle alleate 21 (13 italiane). I colpi in pieno messi a segno sugli incrociatori, i cacciatorpediniere e le torpediniere nemiche furono 37 a opera delle unità della Regia Marina, 10 francesi e 6 inglesi. I numeri parlano chiaro, ma fu una guerra di uomini, non di cifre, e una lotta tra giganti da ricordare.
Scheda 2, Del Capo di Stato Maggiore
L’ammiraglio Paolo Thaon di Revel, due volte capo di Stato Maggiore della Marina tra il 1913 e il 1919, gettò le basi della vittoria riportata durante la Grande Guerra in tempo di pace. Caso raro, riuscì, infatti, spendendosi in prima persona e ricorrendo a moderni sistemi promozionali, a convincere la classe politica ad adeguare le necessità di bilancio alle necessità navali. I provvedimenti (definiti, come sempre, all’osso, ma con lungimiranza) arrivarono appena in tempo. Gli investimenti furono dedicati a “tutto quello che non sin vede”: combustibili (tradotti in ore di moto e in addestramento realistico), munizionamento, pezzi di rispetto, materiali, logistica, basi, officine attrezzate e navi ausiliarie.
Capo (severo) e manager dotato di una visione completa della natura vera dei problemi (sempre tra loro collegati) sotto il triplice profilo navale, politico ed economico, Thaon di Revel rimase però un marinaio a tutti gli effetti. La notte tra il 13 e il 14 ottobre il comandante Luigi Rizzo forzò, per al seconda volta quell’anno, con il MAS 20 le ostruzioni austro-ungariche di Trieste attraccando, addirittura, al lato esterno della diga del Vallone di Muggia per verificare lo stato delle difese nemiche. Rientrato alla base, Rizzo confermò la fattibilità di un piano, da tempo allo studio a Venezia, destinato a culminare in un attacco notturno contro il naviglio avversario presente a Trieste.
Thaon di Revel era sempre pronto, a sua volta, a utilizzare unità spendibili in imprese paganti, ovvero a agire coerentemente rispetto alla propria dottrina del rischio calcolato; ma non era per niente disposto a perdere stupidamente i propri uomini in occasione delle missioni di forzamento dei porti nemici. L’ammiraglio era infatti perfettamente consapevole delle eccezionali qualità nautiche ed etiche necessarie per tentare certe imprese e del fatto che soltanto pochi comandanti ed equipaggi potevano svolgerle. Di conseguenza il capo di Stato Maggiore della Marina italiana andò personalmente, pochi giorni dopo, a verificare, di notte, la situazione a Trieste portandosi in vista delle ostruzioni nemiche a bordo di un motoscafo lungo meno di 10 metri fuori tutto e dotato di un motore elettrico ausiliario. Rientrò, la mattina dopo, a Grado definitivamente persuaso in merito alla fattibilità dell’azione, culminata infine con l’affondamento della corazzata austro-ungarica Wien.
Non si vantò di quella ricognizione, né ne fece menzione all’epoca. Anni dopo fu però criticato, per questa vicenda, da alcuni commentatori i quali affermarono, senza tema di smentita, che un Primo Lord del mare non si sarebbe mai sognato di correre il rischio di farsi prendere prigioniero. Avevano perfettamente ragione, ma stavano parlando di un ammiraglio italiano.
Scheda 3, Dell’Aviazione Navale
Braccio indispensabile della Marina, l’aviazione navale si sviluppò impetuosamente durante la Grande Guerra, passando da 30 aerei (più 2 dirigibili) nel maggio 1915 a 638 velivoli (tra idrovolanti e apparecchi terrestri) e 4 dirigibili in servizio alla fine del conflitto,
I 402 pionieri iniziali del volo, tra piloti, osservatori, equipaggi e personale a terra, del 25 maggio 1915 diventarono 3.325 per il 4 novembre 1918. Altri 106 ufficiali, sottufficiali graduati e comuni morirono tra queste due date.
Ricordare le loro imprese è impossibile in questa sede. Limitarsi a un freddo elenco di numeri, tipo le 22.842 missioni di guerra effettuate da quegli aeromobili durante il conflitto, sarebbe riduttivo.
E’ preferibile ricordare un solo pilota tra i tanti: l’asso della caccia della Regia Marina Federico Martinengo, titolare di cinque vittorie, tutte confermate. Il 4 maggio 1918 si scontrò, tra l’altro, al comando del proprio idrovolante Macchi M.5, con l’asso degli assi dell’aeronavale austro-ungarica, il barone Gottfried von Banfield. Finirono tutti e due in mare, venendo salvati da torpediniere delle rispettive Marine mentre altre unità italiane recuperavano e rimorchiavano a Venezia sia l’aereo di De Banfield, sia un’altra vittima di Martinengo, l’idro gemello A 78.
Dopo la guerra la Regia Aeronautica, creata da Mussolini meno di sei mesi dopo la presa del potere, fece carte false per poter annoverare Martinengo tra i suoi. Al pari dei tre quarti dei piloti della Marina, l’asso dell’aeronavale italiana preferì non cambiare Forza Armata, nonostante la mutilazione della Forza Aerea navale italiana dovesse continuare, contro ogni logica e persino dopo una guerra perduta, fino al 1989. Proseguì la propria carriera, comandando infine l’incrociatore Attendolo alla Battaglia di Punta Stilo del 9 luglio 1940. Capo di stato Maggiore del Dipartimento Marittimo dello Jonio e del Basso Adriatico raccolse, quattro mesi dopo, l’eredità fallimentare dell’Esercito durante la Guerra di Grecia riuscendo a far affluire, nonostante il caos iniziale, i rinforzi in Albania e a dirigere una vivace guerra costiera in quelle acque caratterizzata da frequenti bombardamenti navali a opera delle navi italiane respingendo altresì, nel novembre 1940, uno sbarco ellenico a Butrinto e mettendone a segno, viceversa, uno proprio, a Santi Quaranta cinque mesi dopo.
Ammiraglio ispettore delle piccole unità antisom della Marina cadde, combattendo due motodragamine tedeschi grossi il doppio di due delle sue vedette, il pomeriggio del 9 settembre 1943, nelle acque della Gorgona, dove aveva imparato a navigare, in Accademia, nel 1911. Era al timone della VAS 234 dopo che una raffica aveva ucciso il timoniere di quell’unità.
Tutti sanno chi è stato Francesco Baracca; nessuno, o quasi, sa chi è stato Federico Martinengo, l’asso degli idrocaccia, ma la sua vicenda è quella di un filo blu, che non può mai essere spezzato, che collega la Marina di ieri e delle due guerre mondiali a quella di oggi e a quella di domani.
Scheda 4, Dei Sommergibili
Guerra silenziosa (e spesso dimenticata) quella dei sommergibili italiani in Adriatico tra il 1915 e il 1918. Pochi e piccoli bersagli, molti rischi, in quelle acque basse letteralmente infestate di mine, e pattugliamenti logoranti e continui.
Gli attacchi utili (quando si riusciva a giungere, navigando immersione a tre nodi all’ora, a portata di siluro) furono il 10% del totale, percentuale questa identica a quella registrata dai battelli francesi e inglesi in quello stesso mare, a conferma dei problemi di tutti.
Vale la pena di ricordare una, tra le tante centinaia di missioni. La sera del 4 luglio 1918 il sommergibile italiano F 12, al comando dell’allora tenente di vascello Alberto Marenco di Moriondo, avvistò, al tramonto, mentre stava procedendo in immersione, un sommergibile avversario davanti a Porto Baseleghe. Con una lenta (4 nodi) cinematica l’unità italiana si portò due volte nel cerchio di lancio e per due volte fu costretta a ricominciare tutto daccapo in seguito ad altrettante accostate del bersaglio. Ormai era notte fonda e la cinematica e la soluzione finali furono elaborate a mente dal comandante mediante, come dicono gli americani, il proprio “eyeball” MK I, ovverosia l’occhio modello I, uno, asservito a un cervello tipo A assemblato e rodato in Accademia alcuni anni prima e poi provato lungamente in mare.
Il silenzio, a bordo, era totale. Il caldo infermale. L’aria ormai pesante, viziata e puzzolente. L’unico a vedere, se così si può dire, qualcosa del battello nemico in affioramento era il comandante, quando alzava brevemente il periscopio. Gli idrofoni non sentirono, a un certo punto, più nulla, in quanto l’unità subacquea avversaria era passata sul motore elettrico in vista dell’immersione, fatto questo che l’avrebbe messa definitivamente al sicuro. Finalmente il comandate ordinò (erano le 22.47!) il lancio. Uno dei due siluri centrò in pieno l’U 20 austro-ungarico al comando del tenente di vascello Ludwig Müller. Non ci furono supersiti tra i 18 elementi dell’equipaggio.
Si trattò di una perfetta azione antisom stile Guerra fredda. Però non c’erano né i siluri filoguidati, né la centralina, né il radar, né il sonar, né il tavolo tattico, né le boe acustiche, né tutta la tecnologia moderna o, addirittura, quella attuale, ascrivibile, al confronto, alla fantascienza pura. Esistevano soltanto un equipaggio bene addestrato che aveva totale fiducia nel proprio comandante. Ed esisteva un comandante che si limitò a far scrivere, sul giornale di chiesuola, l’ora dell’avvistamento e quella del lancio, seguito dall’annotazione, regolamentare quando si colpiva il bersaglio, si “Viva il Re”, risalente alla tradizione Settecentesca nella Marina sarda della guerra in corso per secoli contro i barbareschi.
Marenco di Moribondo diventò, anni dopo, ammiraglio. Perse un figlio, medaglia d’oro, nel 1941 e combatté come partigiano semplice in Piemonte nel 1944-1945, senza farsi notare, ma facendo sempre il proprio dover,e a partire dai turni di guardia. Era soprannominato “il vecchio” o l’ammiraglio, ma i suoi compagni credevano che fosse un marinaio qualunque, soprannominato così tanto per dire.
Nel 1962 il relitto dell’U 20 fu trovato da un’impresa italiana e, in seguito, recuperato a cura di quella società e della Marina Militare. La falsatorre (ossia la cosiddetta vela, come si dice con un brutto inglesismo) è oggi conservata nell’Heeresgeschicthtliches Museum di Vienna mentre l’equipaggio è sepolto nell’Accademia militare Teresiana di Wiener Neustadt. Pace a loro e ai morti della Grande Guerra.
Come ha scritto il più grande poeta statunitense, Walt Whitman, cantore della tragedia della Guerra.
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