Etichetta: Pinkflag Records
Genere: pop / post punk
Anno domini 1979, i Wire, band post-punk composta da quattro studenti d’arte, danno alla luce il loro terzo disco “154”, entrando di diritto nella storia della musica mondiale. “154” fu l’inizio di un nuovo modo di intendere il post-punk: atmosfere postmoderne sospese fra il film Metropolis ed un libro kafkiano, testi intrisi di un cinismo mai fine a se stesso ma sempre intelligente ed intellegibile e quella musica scarna, secca ed essenziale che diventerà l’ossessione, spesso disattesa, di un esercito di gruppi a venire. Fra il sopramenzionato capolavoro e l’ultimo album omonimo sono trascorsi ben trentasei anni ed undici dischi.
Cosa è cambiato da allora? Innanzitutto la formazione, i nuovi Wire, rimasti orfani del chitarrista fondatore Bruce Gilbert, annoverano fra le loro fila il giovane Matt Simms che accompagna i restanti membri originali, Colin Newman, Graham Lewis e Robert Grey, nel loro ultimo album omonimo. Parlando di cambiamenti, quanti hanno seguito la band nel corso degli anni, avranno certo notato un generale ammorbidimento delle sonorità e delle atmosfere, che in questo “Wire” diventano ancora più leggere in favore di un approccio decisamente pop. Non mancano certamente gli episodi più cupi e classici come la notturna “Sleepwalking” o la cascata distorta di “Harpooned”. Questi brani però non riescono a sollevare il disco da una sensazione di generale piattezza che aleggia imperterrita. Canzoni come “Blogging” o “Shifting” sono sicuramente dei brani ben riusciti, costruiti su un incedere rapido che comunica una certa emergenza espressiva, ma il problema di “Wire” risiede nella ripetitività di tali strutture. “In Manchester”, “High”, “Joust & Jostle”e “Split Yout Ends” suonano fin troppo simili, provocando preoccupanti déjà vu all’interno dello stesso disco.
Aver intitolato l’ultimo album come il nome del gruppo rappresenta certamente una scelta ponderata da parte dei Wire, per i quali questo disco avrà probabilmente un significato particolare. Ma, al netto delle speculazioni concettuali, da chi ha fatto la storia della musica ci si aspettava almeno uno sforzo compositivo maggiore e più incisivo.
James Lamarina
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