Anch’io vorrei metterci la faccia.
Nel senso letterale dell’espressione. Avrei cioè voglia di vedere la mia faccia su quei megamanifesti che in questo periodo preelettorale stanno tappezzando la città. Tra la gioia degli attacchini e l’indifferenza dei cittadini presi da tutt’altri problemi.
Mi riferisco a quelle “lenzuolate” (un vero pugno nell’occhio) che lanciarono il Cavaliere nella versione “Presidente operaio”, tanto per intenderci.
Purtroppo il mio rimarrà un sogno. Intanto perché non sono un candidato. E perché, anche se lo fossi, non potrei permettermelo. Infatti lo può fare soltanto chi è ricco di proprio, chi è foraggiato dal Partito, chi è troppo vanesio e chi considera questa strategia di comunicazione una forma d’investimento a breve/media scadenza…
A questo punto la frustrazione (ebbene sì, l’ammetto) mi porta indietro nel tempo, a quando la politica si viveva nelle strade e non sorridendo a trentadue denti da questi megaposter.
Ripenso ai sanguigni comizi che, spesso in contemporanea e a distanza volutamente ravvicinata, si tenevano nelle due più importanti piazze cittadine.
All’epoca ero un ragazzino curioso e, contravvenendo al divieto dei genitori, per amore non tanto della politica quanto dell’ars oratoria che mi affascinava oltre ogni misura (la maggior parte dei politici d’un tempo erano fini dicitori e aborrivano il linguaggio da bettola usato dai politicanti di oggi), andavo ad ascoltarli. Non da sotto il palco, però.
Mi piazzavo nei pressi della mai dimenticata latteria Angelini, in posizione dunque intermedia tra le due piazze, e da lì, gustando un cono con la panna migliore del mondo, coglievo quello che mi giungeva sia da destra che da sinistra. Nel senso che nella mia mente andavano a scontrarsi e poi a conciliarsi le più opposte teorie dei pochi ma seri Partiti. Ivi comprese quelle poco convincenti degli ultimi nostalgici monarchici.
Sarà forse per questo voluto rintronamento che in fatto di politica non sono mai riuscito ad essere coerente per un ragionevole lasso di tempo.
Ricordo solo che, grazie ai miei vent’anni, vivevo quei momenti in maniera esaltante, convincendomi che, al di là di qualche inevitabile scazzottata tra rossi e neri, quello era il modo più democratico di fare politica. E che la miscellanea delle soluzioni enunciate dai vari Partiti (non dalle coalizioni, per carità) era il giusto rimedio per i problemi della città. Bastava solo, superando la resistenza degli schieramenti, attuarle tutte!
E chi ascoltava, avrebbe messo entrambe le mani sul fuoco sulla correttezza delle intenzioni, e sull’assenza d’interessi privati da parte di coloro che si davano battaglia per ottenere un posto al Comune o in Parlamento.
Ma poi, a volere fare i conti della servetta, quanto costerà uno di quei megamanifesti? E dieci? E cinquanta, visto che possono rimanere affissi per una durata non superiore ai quindici giorni?
Cerco di fare un paragone con le locandine che faccio stampare in tipografia ogni volta che esce un mio romanzo. Forse, mi dico, il problema si può risolvere vedendo quante volte una mia locandina “entra” nello spazio occupato dai faccioni sorridenti (che poi non so proprio cosa ci sia da sorridere nella realtà brindisina!). Ma desisto subito perché la matematica non è mai stata il mio forte.
Una cosa è certa: quei manifesti devono costare un bel po’ di soldini. E non oso pensare al disappunto dei nostri candidati se venissero a conoscenza che i loro megamanifesti sono come una barchetta nell’oceano se confrontati con le pubblicità che ricoprono le facciate d’interi palazzoni in ristrutturazione. Qualche giorno fa, trovandomi a Milano, sono rimasto senza parole nel vedere il faccione di Gerry Scotti pubblicizzare, per un’altezza di una quindicina di piani, l’Istituto di Ricerca Humanitas.
Ma torniamo ai più “modesti” megamanifesti nostrani. Sicuramente con la somma che si spende si potrebbe entrare da Sotheby’s e aggiudicarsi all’asta un quadro del Seicento.
Oppure, come oramai fanno i mecenati dell’arte (come Diego Della Valle, patron della Tod’s e sponsor del restauro del Colosseo), destinare la somma spesa per i manifesti al restauro di un bene architettonico e/o artistico della città. Questo vorrebbe dire voler bene veramente a Brindisi, senza contare che per il donatore ci sarebbe un ritorno d’immagine. Altro che le figure di zombi che assumono i faccioni quando si disfano sotto il primo scroscio di pioggia.
Scriveva Ennio Flaiano: «Mai epoca fu come questa tanto favorevole ai narcisi e agli esibizionisti. Dove sono i santi? Dovremo accontentarci di morire in odore di pubblicità». E comunque, caro Flaiano, quello rimane pur sempre un profumo. Mentre la maggior parte di questi lenzuoli ci riporta l’odore stantio delle cose non lavate per bene.
Guido Giampietro
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